A proposito di tempi e luoghi della conoscenza e della cura della follia e dei folli

Marcello Nardini, Luca Petrangeli, Immacolata d’Errico

Marcello Nardini, è stato psichiatra clinico, psicopatologo e fenomenologo. Nel suo approccio alla “immaterialità” della malattia mentale, ha sempre cercato di intessere un dialogo tra le varie scienze “della mente”.  La sua maniera di fare scienza non è stata quella di riferirsi dogmaticamente a moduli aprioristicamente dati, bensì di intessere un dialogo tra la “immaterialità della malattia mentale” ,  le influenze nord americane evidence–based, con  la psicopatologia di natura filosofica,  fenomenica e le neuroscienze. Il tutto nella profonda consapevolezza delle differenze tra persone, mentalità, percorsi di vita, condizioni. Connettere le invarianti esperienziali con la storicità della persona, coglierne la mobilità e la mutabilità. Cercare la comprensione del Significato senza appellarsi tout court a genesi esclusivamente in termini di dinamica neurale, devitalizzando così l’esperienza effettiva destoricizzandola. E ancora guardare alle neuroscienze tramite tecnologie in grado di afferrare l’esperienza allo stato nascente e spiegare l’esperienza fenomenologica anche in relazione alla dinamica cerebrale. Percepire la parzialità del descrivere ed ordinare la realtà fenomenica esclusivamente in termini nosografici e ricorrere alla psicopatologia.  A tutto questo è stata dedicata la vita professionale di Marcello Nardini.

“A Proposito di Tempi e Luoghi della Conoscenza e della Cura della Follia e dei Folli” è la presentazione, del maggio del 1992, agli Atti del II° Convegno Nazionale della Società Italiana di Storia della Psichiatria, sezione speciale della Società Italiana di Psichiatria, a cura di Marcello Nardini, Luca Petrangeli, Francesca Vannozzi.

I festeggiamenti per i 750 anni dell’Università di Siena coinvolsero in modo importante la città e l’Ateneo tutto: furono messe in atto ingenti energie economiche e culturali per celebrare adeguatamente la ricorrenza, con il chiaro obiettivo di dare ancora più slancio nazionale ed internazionale a Siena. In questo clima continuava la frenetica attività del Prof. Nardini che, fondamentalmente, si muoveva su due fronti principali: l’affrancamento della Psichiatria dalla Neurologia, che a Siena continuava ad essere la branca di riferimento (il Direttore della scuola era il Prof. Battistini, eminente neurologo), e la contaminazione tra prassi territoriale e sapere universitario. In quest’ultimo fronte, elemento che ha sempre contraddistinto l’operato di Nardini, si coglie la capacità lungimirante di seguire l’esperienza intrapresa a Verona da Tansella, nel considerare la contaminazione reciproca territorio-università un humus che poteva portare migliore beneficio per l’utente finale (vero e unico scopo del percorso umano e scientifico del Prof. Nardini). Le sue amicizie con il Prof. Cherubini e con la allora Dr.ssa Vannozzi, da tempo lo avevano portato ad intravvedere come il recupero della memoria storica potesse essere un elemento di stimolo e di riflessione per le pratiche quotidiane attuali di salute mentale. In contatto con i vari responsabili delle unità territoriali toscane, aveva intrecciato rapporti stretti con il Dr. Del Pistoia, attento studioso di questo ambito. Inoltre, il 1991 fu l’anno della chiusura definitiva del S. Niccolò, una chiusura avvenuta con una lentezza esasperante in una dimensione di stagnazione evidente della attuazione della 180 sul nostro territorio. Questa dimensione manicomiale di “indefinitezza temporale” era ovviamente particolarmente osteggiata da Nardini, che cercava di strutturare modalità diverse per favorire un movimento emancipativo: costruzione di progetti “a ponte” in collaborazione con vari servizi territoriali (anche Sert), proposta di un registro informatizzato sullo stile del registro danese, studio della storia della psichiatria locale, enormi sforzi che, purtroppo, non videro il nascere di quello che lui aveva sperato e fantasticato, ma che hanno sicuramente permesso, a chi si è formato in quel periodo con lui, di avere una visione scientifica e  culturale della psichiatria e della salute mentale ampia e composita.

Questo scritto, introduttivo agli atti del Convegno, nasce in questo clima generale e focalizza l’attenzione proprio sull’importanza dell’osmosi università-territorio e sull’importanza della conoscenza delle nostre radici storiche come elemento essenziale per poter formulare ipotesi operative evolutive. Il Congresso fu un modo per riunire a Siena importanti esponenti della materia italiani e no. Gaston, Ferro, Callieri, Garrabè, per citarne solo alcuni, furono entusiasti sostenitori del progetto. L’organizzazione fu assai complessa, perché il Congresso, nato nel corso dei festeggiamenti, non poté usufruire dei finanziamenti che erano stati inizialmente stanziati. Visto che le case farmaceutiche non vi vedevano un particolare ritorno, fu il Prof. Nardini in prima persona a muoversi alacremente per riuscire a collezionare interessi i più disparati che alla fine permisero questa realizzazione. Di conseguenza consistente fu il coinvolgimento di noi specializzandi in tutte le varie fasi realizzative. I contributi furono veramente significativi e la pubblicazione degli atti ci fu sollecitata da più parti per non perdere l’importante patrimonio di quel consesso. Nel leggerli adesso si scoprono spunti e riflessioni assolutamente pionieristiche, come il concetto di transnosografia, che di lì a poco si imporrà nella lettura “dimensionale” del sintomo.

Di seguito riportiamo integralmente la Presentazione agli atti del Convegno.

Nel presentare gli Atti del II° Convegno Nazionale della Società Italiana di Storia della Psichiatria, sezione speciale della Società Italiana di Psichiatria, vorremmo proporre alcune personali considerazioni ad introduzione della lettura dei contributi.

Quando il Consiglio Direttivo della Società, nella persona del suo Presidente, Dott. Luciano Del Pistoia, ci ha offerto di organizzare a Siena il Congresso Nazionale della Società inserito nelle manifestazioni scientifiche per i 750 anni dello Studio Senese, abbiamo accettato volentieri e con entusiasmo; la collaborazione con il prof. Arnaldo Cherubini, storico della Medicina, è stata ricercata ed è risultata fondamentale ed insostituibile.

Si era presentata l’occasione per riaffermare un mio profondo convincimento: la psichiatria trova la sua identità all’interno delle scienze e della pratica medica: da queste non può essere separata.

Particolare importanza assumeva poi l’inserire un congresso di storia all’interno delle manifestazioni per un evento storico: la celebrazione della nascita di una università che vive ormai, vitale, da 3/4 di millennio e si sta attrezzando per superare i confini delle regionalità e nazionalità, accogliendo lo stimolo di evidenze oggettive. Il non vederle ed il non recepirle avrebbe il significato di negare ogni possibilità di sviluppo e di vita. Secondo noi è questo l’unico significato possibile delle occasioni di celebrazione della nascita; va evitato di essere sedotti dal fascino romantico del ricordo con nostalgia, onde non paralizzarsi in una condizione di esistenza senza vitalità.

In quest’ottica le celebrazioni e i convegni di storia si inseriscono come tappe essenziali nella riconquista della memoria del passato: “l’ignoranza del passato non solo nuoce alla conoscenza del presente, ma compromette, nel presente, l’azione medesima” (Block M.: “Apologia della storia”, Einaudi, Torino 1950, p.51).

Tale memoria si può così concretizzare nella pubblicazione degli “Atti” di un congresso: “lo scritto facilita notevolmente quei trapassi di pensiero costituenti la vera continuità di una civiltà” (Block M.: ibid., p.52).

Ma, come afferma Le Goff, il passato non è la storia, è il suo oggetto; così pure la memoria non è la storia, ma, insieme, uno dei suoi oggetti e un livello elementare di elaborazione storica. Con ciò si evidenzia come la sola traccia mnesica, sia pure “autobiografica”, “professionale”, non basti nell’elaborazione scientifica della storia: “una scienza storica autogestita non solo sarebbe un disastro, ma è anche priva di senso” (Le Goff J.: “Storia e memoria”, Einaudi, Torino, 1977, p. 36). A questo punto non possiamo che abbracciare la tesi di Block, quando afferma che, pur nell’esigenza del mondo contemporaneo di avere i propri specialisti, occorre richiedere loro di “ricordarsi che le ricerche storiche non ammettono l’autarchia. Isolandosi, ciascuno di loro capirà solo a metà, persino nel proprio settore di indagine” (Block M.: ibid., p.57).

In ciò l’esigenza sempre più pressante di una collaborazione tra storico e psichiatra nell’analisi e nell’elaborazione della storia della psichiatria.

Come per suffragare questo elemento, che a noi sembra essere indispensabile per ogni approccio storico, ci sembra più che doveroso un richiamo alla teoria di Foucault. La storia è quella che trasforma i “documenti” in “monumenti”: occorre quindi fare l’archeologia della storia, in quanto ogni storia è archeologica per natura. Solo che “nello spiegare i monumenti, non si può partire da un motore unico, ma da tutte le pratiche (monumenti) vicine alle quali esse si ancorano”: da ciò la necessità di nuovi strumenti metodologici per far affiorare “la parte sommersa dell’iceberg” (Foucault, “L’archeologia del sapere”, Rizzoli, Milano, 1971, p.385).


Nel 1862 si tenne a Siena il Congresso scientifico nazionale delle specialità mediche, in quella occasione era prevista la costituzione di una sottosezione di alienisti che si sarebbe dovuta occupare del problema delle leggi, della sorveglianza sui manicomi e della classificazione e nomenclatura delle malattie mentali. Per gli psichiatri di allora, gli alienisti, fu un insuccesso: erano presenti solo in sei e fecero unicamente voti affinché si provvedesse all’interesse generale degli alienati.

L’idea di costituire una identità societaria psichiatrica, alla stessa stregua delle altre specialità mediche, era della scuola milanese, che faceva capo a Verga. Questo germe ebbe necessità di 10 anni per crescere; sempre su proposta del Verga, nel 1873, a Roma, durante l’XI° Congresso degli scienziati, venne fondata (erano in tredici) la “Società Freniatrica Italiana” con lo scopo di tutelare gli interessi dei soci e di promuovere lo sviluppo della psichiatria italiana, non dimenticando i rapporti che legavano la psichiatria con i “diversi rami dello scibile medico”. Della nuova società scientifica potevano fare parte, oltre agli alienisti, tutti i cultori delle scienze naturali e filosofiche interessate alla cura dell’“uomo fisico, nelle sue relazioni morali e sociali”, e ancora tutti coloro che intendevano “in qualsiasi modo giovare alla causa degli infelici alienati”. L’anno successivo ad Imola si tenne il I° Congresso della Società Freniatrica, che in quella occasione venne ad annoverare 88 membri. Esso segnò l’emergere della scuola reggiana, guidata da Livi (che aveva precedentemente diretto il manicomio di Siena, incarico lasciato per contrasti insanabili con la proprietà sulla programmazione sanitaria), di cui facevano parte Morselli e Tamburini, a discapito di quella milanese del Verga. La scuola milanese venne accusata dai colleghi reggiani di essersi allontanata dalle basi sperimentali che l’avevano caratterizzata all’inizio, per privilegiare unicamente l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica nei luoghi ideali di cura (i manicomi), perdendosi in continue e sterili progettazioni e riorganizzazioni di cattedrali (ammirate ancora oggi per la loro grandiosità più che per i loro stili architettonici) incapaci, peraltro, di aumentare le conoscenze e l’assistenza dei malati. La scuola reggiana prese rapporti con Lombroso (considerato scienziato ma con metodologia insufficiente e parziale) e con Griesinger che in Germania, in quegli anni, stava conducendo una dura lotta contro l’organizzazione manicomiale, tanto incisiva da bloccare in quella nazione lo sviluppo del progetto di costruzione di nuovi manicomi ed in particolare di quello grandioso di Dresda, in avanzato stato di progettazione (in ogni dove v’è un manicomio mai nato!).

In questo clima di superamento della vecchia scuola psichiatrica, venne fondata a Reggio una rivista, “Rivista sperimentale di Freniatria e Medicina Legale”, con lo scopo di fondere l’aspetto clinico e nosografico con quello anatomico, per risalire alla patogenesi e alla nosologia (Morselli). In quella rivista venne sviluppata l’idea dell’origine materiale di idee, voleri, sentimenti ed affetti, il che porto a considerare le malattie mentali come “malattie dell’organo cerebrale”; da allora vennero usati i termini di ‘freniatria’ e ‘freniatri’ per indicare la psichiatria e gli psichiatri (che da allora non si chiameranno più alienisti). La Psichiatria diventava nuovamente, o almeno lo ufficializzava, branca del conoscere e dell’agire medico, cercando di trovare una propria identità e specificità, ma nello stesso tempo perdeva una occasione storica, qualificandosi come una “parte della neuropatologia, entro la quale doveva risiedere” (Griesinger). Nel tentativo di evitare il ritorno ad ipotesi vitalistiche e sociologico-assistenziali generiche di derivazione confessionale, si rifugiava all’interno del cervello, trovandovi la sicurezza scientifica che non era riuscita a trovare nella complessa ed articolata ipotesi pineliana di una mente e di una follia, pensabili unicamente all’interno della società e della sua organizzazione di leggi e regolamenti, cioè all’interno dell’ipotesi illuministica della comprensione e costruzione della società e dei singoli, in una armonia di rapporti, sempre ed unicamente collegati alla norma della ragione.

Dal “raggruppamento” e “messa in relazione” (Foucault) di questi diversi eventi storici, emergono quelle che possono essere considerate le coordinate di avvenimenti che hanno portato ad un rovesciamento dei fondamenti della grande riforma di Pinel ed Esquirol; il dogma che una struttura spazio-temporale, il manicomio, fosse capace, nelle mani di un valente psichiatra, di costituire il principale fattore terapeutico dei disturbi mentali, veniva sostituito dal convincimento (che diverrà pur esso dogmatico) che qualsiasi edificio, grazie all’opera di un buon medico, potesse diventare un luogo di cura.

In questa ottica la follia non aveva più un suo, specifico, luogo di cura, la follia non si definiva più sulla base del luogo dove veniva collocata e curata; la cura era il punto di arrivo della formazione del medico e della conoscenza della malattia mentale. Questa concezione derivava da Griesinger, il sorgere dei manicomi era derivato dalla utopia pineliana della curabilità assoluta della follia; a questa, Griesinger contrapponeva la consapevolezza di una condizione morbosa ad andamento cronico con esacerbazioni e remissioni. Nel voler dimostrare la curabilità della follia, Pinel ed Esquirol hanno portato all’interno dei manicomi, luoghi di cura, tutti gli incurabili; il manicomio, quindi, nato da una utopia terapeutica complessa, come strumento di terapia, era diventato il luogo di contenimento della follia e la sua fabbrica. Ciò si evidenzia nelle parole di Verga: “Il più grosso errore dei tempi moderni, un resto di ignoranza e di barbarie, fabbriche di incurabili, cimiteri dell’intelligenza, luoghi infami di sequestri arbitrari e d’inumazione anticipata”.

I manicomi, nella loro complessa strutturazione architettonica e di regolamenti, nascevano non in risposta alla necessità di cura della malattia in quanto tale, ma come espressione della incapacità della famiglia e della società a tollerare i disturbi che la malattia provocava e provoca. I manicomi sono quindi i luoghi non della follia e della sua cura, ma i luoghi della gestione della follia.


Rifacendosi all’impostazione teorica, brevemente tratteggiata all’inizio, sottolineando come la funzione sociale della storia risieda appunto nell’organizzare il passato in funzione del presente, troviamo gli elementi per tentare di tracciare alcuni lineamenti di elaborazione di una delle fondamentali dicotomie della psichiatria: manicomio/territorio. Nell’analisi del significato/significante del concetto di territorio, risulta il fatto che esso è definito da coordinate spazio-temporali che non sono quelle della follia, ma quelle della organizzazione sociale, economica, sanitaria e socio-assistenziale. Ma dall’analisi precedentemente fatta emerge come anche il manicomio sia definito da coordinate spazio-temporali. Nasce così la necessità di studio della differenza/somiglianza dei due concetti.

Oggi, accanto al territorio (è pur esso una organizzazione della cura della follia) esistono ancora i manicomi, nella realtà oggettiva o nei ricordi, con nostalgia, dei singoli e della collettività; nel territorio e nella sua organizzazione si vuol dimostrare la curabilità della follia,  portandovi dentro anche la incurabilità, non della follia (evidente dato di fatto), ma dei manicomi, espressione a loro volta della utopia della curabilità, nella accezione semantica di guaribilità/inguaribilità. I manicomi erano i luoghi della curabilità della follia, ed erano considerati come gli ospedali degli incurabili. Il territorio, o meglio i suoi luoghi ed i luoghi della follia, diventerà il luogo della incurabilità? E dove sarà il luogo della cura della follia? Esiste il luogo della follia? Esiste la cura della follia?

Al tempo di Griesinger non esisteva la cura della follia, esisteva quella della malattia mentale in alcuni momenti del suo sviluppo; esisteva la conoscenza della follia e della malattia mentale e la storia lo dimostra. Esiste ora? Forse si cura più facilmente di allora la malattia mentale, la cura della follia è ancora molto ardua. Lo psichiatra di oggi ha lo stesso problema di Pinel, Esquirol, Griesinger, Livi, Verga, Morselli, Tamburini, Tanzi ed altri. I problemi sono simili ma non uguali. Follia e malattia mentale non sono sinonimi; si comprendono senza sovrapporsi. Sono categorie descrittive e conoscitive che descrivono fenomeni diversi pur nella somiglianza.

Forse, lo psichiatra, oggi, si deve porre questo problema e finalmente risolverlo: saper vedere l’unità laddove c’è la scissione; in particolare, saper vedere l’unità della mente laddove c’è la scissione/separatezza fra “cervello/mente/corpo”. E nello stesso tempo, riconoscere la diversità fra le varie sub-unità e fra queste e l’unità.

Il tema del Congresso “Nosografia e Transnosografia” si colloca così completamente all’interno del quadro di riferimento che abbiamo tentato di tracciare. È la riscoperta di una necessità assoluta per il progredire della conoscenza del pianeta follia e malattia mentale. Secondo noi tale tema contiene la proposta di entrare all’interno di uno spazio e conoscerlo e descriverlo “tridimensionalmente” per cercare di raffigurarlo nel suo “spessore”. La nosologia, in questo quadro di riferimento, diventa strumento di conoscenza e produce nosografia non tassonomica, di linneiana memoria, ma intesa come categoria conoscitiva piena e funzionale.

Nel progetto pineliano la conoscenza nosologica e nosografica diventava lo strumento per dare senso all’ipotesi assistenziale e curativa, che portava a concettualizzare l’isolamento unicellulare come la condizione ottimale per la cura e per la dimostrazione della curabilità. Nel nuovo progetto diventa strumento per ricercare e trovare una cura della follia.

Gli spunti di riflessione in questa presentazione sono molteplici ma riteniamo opportuno a conclusione di questa Presentazione, riproporre le parole che il Prof. Marcello Nardini stesso scrisse in “Dialogo sulla psichiatria e sulla sua identità”:

 «è giunto il momento di concludere questo mio “girovagare” nei meandri e nel  labirinto della mente e dell’esistenza umana e della storia dell’uomo  e delle istituzioni: mi auguro di aver contribuito ad individuare il “filo d’Arianna” per poterne uscire. … Nel mio animo alberga un sentimento di soddisfazione, nella speranza di aver sostituito al paradigma della guarigione sociale della persona con malattia mentale quello della guarigione clinica della malattia mentale: solo così la persona non avrà più necessità di essere “riabilitata” e “riconsegnata” – abile ed abilitata – alla società civile, ma solo di “farsi abile” all’esistenza personale e soggettiva!

In questo mio dire c’è un cambio di paradigma: dal curare la malattia e riconsegnare il soggetto sano alla società civile occorre passare alla prospettiva di produrre salute nei singoli e nei cittadini anche – curando e “sanando” la malattia. È la grande “sfida” (quasi utopica ma per me possibile) della moderna medicina di comunità e sociale, al cui interno la psichiatria è ricompressa. In questo processo a nessuno è concesso di “tirarsi fuori”, ognuno è coinvolto. La società e le sue articolazioni sono coinvolte, è inevitabile»

 

Bibliografia

d’Errico I. Tra clinica e neuroscienze: la legacy di Marcello Nardini. Atti del Congresso SOPSI, 2019.

Nardini M, Petrangeli L, Vannozzi F. A Proposito di Tempi e Luoghi della Conoscenza e della Cura della Follia e dei Folli. In Nosografia e Transnosografia, Atti del II° Convegno Nazionale della Società Italiana di Storia della Psichiatria, Siena, 21-23 marzo 1991. A cura di Luca Petrangeli e Francesca Vannozzi. Tipografia Senese, Siena, 1922.

Nardini M. Dialogo sulla psichiatria e sulla sua identità. Rivista La torre e l’arca (on-line), 2008.

 

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