Colpa e vergogna: confronto etico nella relazione terapeutica
- Marcello Nardini
- Marcello Nardini
- Ottobre 21, 2015
Marcello Nardini
Catt. di Clinica Psichiatrica. Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università di Siena
Una premessa
Nella mia relazione proporrò alcune considerazioni e riflessioni finalizzate al tentativo di contribuire a dare concretezza teorica alla pratica della relazione terapeutica.
La relazione terapeutica può essere definita come il tempo ed il luogo entro e dove soggetti (paziente e terapeuta) si “incontrano” (cominciano ad esistere come tali) per dare avvio ad un lavoro finalizzato alla cura, attivando uno “scambio”, che diverrà lo strumento della trasformazione.
II progetto trasformativo prevede l’acquisizione di competenze tali da rendere possibile la soluzione del rapporto (separazione), abbandonando la “co-dipendenza”, condizione che emerge, automaticamente, al primo incontro.
II rapporto terapeutico al suo inizio è infatti caratterizzato da una “dipendenza reciproca” e solo nel suo svolgersi avvia un processo che si concluderà con l’ acquisizione delle singole identità.
Un rapporto, per iniziare come terapeutico, deve prevedere quasi uno stato “immersione” per l’entrata in gioco di tutte le emozioni, sentimenti ed affetti personali, reciprocamente interagenti. Pensare tali emozioni “come non esistenti” e altamente controproducente; vanno, al contrario, fatte emergere, accolte e ri-consegnate, reciprocamente, ri-elaborate.
Queste riflessioni derivano da nostre “crisi” o “difficoltà”, esperite nel tentativo di infrangere equilibri patologici per avviare processi di crescita; le spinte al nostro lavoro le abbiano trovate esemplificate in una frase di Mary Richards (riportata da M. A. Fossum e M.J Mason): “Dobbiamo renderci conto che, ci piaccia o no, un essere creativo vive dentro di noi, e che dobbiamo lasciarlo passare, perché non ci dara pace sino a che non lo avremo fatto”.
“Elisabetta e una ragazza di 23 anni, studentessa, che si presenta alla consultazione con aria dimessa, quasi ripiegata su se stessa, con evidente imbarazzo; veste in maniera anonima; ha difficoltà a parlare, arrossisce ed abbassa gli occhi; provo un evidente imbarazzo e non so come iniziare il colloquio; il silenzio diventa per Elisabetta insopportabile e lo dimostra con l’aumento dell’agitazione e dell’inquietudine. Chiedo quale è il problema che mi vuole proporre. Dice: nessuno, ho solo bisogno che lei mi dia una buona cura (so da una mia amica che lo può fare) per farmi stare bene. Non voglio parlare di niente perché non c’è niente che mi disturba. Non parla oltre, ma è evidente che ha un “segreto” che non “può” comunicare. Lo intuisco e lo rispetto. L’inizio del colloquio mi rassicura un poco, ma non del tutto. Dico che non sono in grado di dare una “buona cura” come lei si aspetta, se non conosco bene la sua situazione; mi sento certo, però, di essere in grado di darle aiuto. Elisabetta diventa più inquieta ed ii suo viso è più arrossato di prima. Dico che forse si vergogna; lei con un gesto lo conferma. Continuo: mi sembra di avere capito, può succedere e sono disposto ad accettare che tu non mi comunichi ii tuo segreto. In seguito, racconta alcune notizie sulla sua vita; soffre molto perché stando male non può continuare a studiare, e neppure ad aiutare i genitori, specialmente la madre che in questo momento è malata ed avrebbe bisogno di lei. La sua vergogna è la sua malattia: non avrei dovuto, dice.
Accetta di parlare nuovamente di se stessa in una seduta successiva, ma mi pare reticente e non capisco ancora perché : riesco a sapere che e venuta “di nascosto” dai suoi genitori e non sa come fare per pagarmi ancora. I genitori non devono sapere. Dico che sono disposto a non ricevere compenso, privato; desidero però che ritorni per lavorare insieme, concedendosi alla conoscenza e alla comprensione; annuisce, ritorna. Mi sento non più imbarazzato, riesco a scambiare le emozioni e ad intuirle. A distanza di tre mesi Elisabetta ha ripreso gli studi”.
Non ho ancora “conosciuto”, e non mi sono chiari gli eventi storici del sorgere della sua sofferenza. Elisabetta aveva “vergogna” e voleva sparire: voleva diventare invisibile come invisibile è il sentimento di vergogna (che contiene).
Nel rapporto con me e con la sua sofferenza, non voleva fronteggiare questo sentimento, voleva tenerlo nascosto e farsi bruciare (diventava sempre più rossa in viso).
Voleva mantenere le distanze da me e quindi, pur desiderandola, si allontanava dalla cura e dalla guarigione, illudendosi di una “buona cura di medicine che la facessero forte”, per “poter nascondere quanta era successo”. In questo mi coinvolgeva ed ho corso il rischio di trasformare la mia “vergogna/inadeguatezza” nel suo contrario, l’orgoglio, e con questo di gioire nella soddisfazione di mantenere la fantasia, l’illusione di grandezza che Elisabetta stessa mi proponeva (so che lei è bravissimo, e può sicuramente darmi una cura che mi farà stare bene senza la necessità di parlare di me, come succedeva con l’altro medico).
La vergogna si è evidenziata come il vettore del rapporto; svelata, ha smesso di congelarci e divorare le nostre capacità trasformative. Il rendere conoscibile la vergogna, ha significato, per Elisabetta (e per il terapeuta), entrare nel rapporto, riacquistando la sua indipendenza.
Conoscendo ed esperendo verbalmente la vergogna, Elisabetta ha intuito la possibilità di una cura che nel rapporto si è attuata.
Colpa e vergogna
Colpa e vergogna sono due sentimenti da ritenersi “centrali” per la comprensione psicopatologica della malattia mentale e per dare un “senso” alla sua terapia.
Su questi temi si è probabilmente sviluppata la storia dell’uomo almeno nella civiltà occidentale, della sua sofferenza e del suo dolore, che si materializza, a vari livelli di definizione, nei concetti di sofferenza psichica e di malattia mentale.
Questa considerazione trova conferma in una frase di Nietzsche: “oh, amico! Cosi parla chi sa: vergogna, vergogna, vergogna, questa è la storia dell’uomo” e in una di Hebbel: “ii senso di vergogna è il limite interiore del peccato nell’uomo; quando questi comincia ad arrossire è coinvolta la parte migliore di se stesso”.
Si intravedono le profonde relazioni fra “peccato/colpa/delitto” e inadeguatezza/vergogna/sparizionemorte”. Colpa e vergogna rappresentano fenomeni estremamente complessi ; all’interno delle loro relazioni configura la percezione della corporeità e della carnalità.
L’emergere del sentimento di vergogna appare collegabile con la nascita delle funzioni di pensiero e coscienza, e quindi dell’lo primitivo, che segue al distacco dallo stato fusionale/narcisistico. Lo sviluppo dell’Io e l’acquisizione del sè ritmato dai confronti fra “colpa” e “vergogna”.
Il meccanismo “separazione /individuazione” fondamentale per la vita mentale se riletto nei significati di “perdita/investimento”, si sovrappone ai vissuti di colpa e vergogna: colpa, con le valenze di perdita catastrofica ed annichilente e disperata; vergogna, nella coscienza della propria inadeguatezza e nella consapevolezza della propria esistenza umana (entro la quale si scopre, facendola propria, l’individualità autonoma).
La vergogna è definibile come “l’emozione penosa suscitata dalla coscienza di colpe, carenze ed inadeguatezze”; il sentimento di vergogna costituisce altresì un sentimento penoso di perdita di rapporto con ii prossimo e con I’ ambiente; chi prova questa sensazione non vorrebbe vedere né essere visto, vorrebbe indietreggiare e fuggire, scomparire, essere inghiottito dalla terra, si sente bloccato ed ha la sensazione che tutto sia finito. Si instaura il distacco dagli altri con segregazione dal prossimo ed impossibilità a confidare agli altri i suoi pensieri distruttivi; in questo senso la vergogna somiglia al suicidio, se vista come via d’uscita oggettivamente o solo soggettivamente penosa.
Colpa e vergogna esistono come una “diade”; emergono nello stesso tempo, non appena avviene l'”evento”, contemporaneamente “colpevole” e “vergognoso”.
La colpa prevede la riparazione per essere sanata, la vergogna è di per sé stessa riparatoria in senso prospettivo in quanto porta alla coscienza del sé e alla definizione dei propri limiti e della propria individualità.
Colpa e vergogna costituiscono i primi sentimenti all’interno della vita dell’uomo, in senso di genesi biblica.
L’essere uomo significa perdere il rapporto allucinato ed identificatorio con l’essere divino (“sarai a mia immagine e somiglianza”) in una condizione di dipendenza esistenziale, per sfruttarne un altro, quello umano, in cui il rapporto con il “divino” si basa sulla percezione, coscienza, e consapevolezza dei limiti della condizione di “corporeità/uomo”. L’uomo per “esistere in quanto uomo” non ha la necessità di “inglobare” il “divino”; nel rapporto e “confronto” con il “divino” fa emergere e nascere la sua umanità e corporeità.
Colpa e vergogna rappresentano i sentimenti seguenti alla rottura della condizione narcisistica primaria (o “sono” direttamente al suo interno), allo scopo di entrare nel cammino della formazione del rapporto oggettuale.
L’uomo per esperire tali sentimenti deve già possedere un Io sufficientemente sviluppato capace di scelte e di giudizi; per esperire tali sentimenti i livelli di coscienza e consapevolezza devono essere formati, e vi deve essere una “condivisione” dei valori a cui si “trasgredisce” per la colpa, e a cui ci si “raffronta”, dopo aver esperito la finitezza, per la vergogna.
Colpa e vergogna hanno a che fare con la formazione della “presenza del rapporto” che riteniamo essere alla base dell’”esistenza”; paradossalmente, con la negazione della presenza del rapporto, scompare il sentimento di colpa e vergogna (non è più emergente).
Nella condizione narcisistica l’Io è fuso con l’Altro, anzi è l’Altro, e dall’Altro deriva la vita, esperendo la sua dipendenza e quindi la sua impotenza; il superamento della condizione narcisistica impone la distinzione dall’Altro (separazione) individuato come Tu: questo comporta la presa di coscienza della propria potenza (ora l’Io può essere diverso dal Tu), rinunciando all’invidia della potenza dell’Altro. Ciò comporta una separazione dallo stato fusionale con l’Altro, con la strutturazione di uno spazio oggettuale che separa l’Io dal Tu e che sarà percorso da scambi nelle due direzioni.
E’ questo un processo che necessita di un tempo e di uno spazio, in cui i sentimenti di colpa e vergogna si pongono come strumenti della trasformazione maturativa. Spazio e tempo che sono primitivamente soggettivi (hanno un significato unicamente per ii soggetto, e che come tale devono essere transitori). La maturazione comporta la trasformazione del “soggettivo” in “oggettivo” (spazio e tempo hanno un significato anche per gli altri, sono “condivisi “).
Vergogna e ombra
Il sentimento di vergogna sembra instaurarsi durante l’infanzia per raggiungere il suo acme nell’adolescenza; la sua nascita è correlabile a quei processi graduali e delicati, che hanno a che fare con la scoperta del Sè e della identità personale, e del mondo circostante. Questo processo comporta sempre l’esigenza di esperire carenze personali, inadeguatezza, dipendenza. II soggetto ne proverà vergogna ed invidierà gli altri per la loro adeguatezza, competenza, indipendenza.
Tale condizione psichica genera angoscia che non pare tollerabile. Meccanismi di difesa sono generalmente messi in atto: regressione alla prima infanzia onde evitare il conflitto oppure diventare improvvisamente “grandi” onde “saltare” il conflitto per superarlo. In entrambi i casi il conflitto viene “risolto” per “negazione” dello stesso, o per “sparizione”.
La messa in atto di tali meccanismi di difesa comporta la creazione di uno spazio “oscuro” in cui collocare, proiettando , la parte non gradita di Se; in tal maniera si configura l’ombra, sempre “perturbante” con i suoi contenuti sempre minacciosi.
Il concetto di “sparizione” ci riporta ad un’altra considerazione: la vergogna ha molto a che fare con la costruzione dell’Immagine di Sé.
A tal proposito ci piace parlare dello “stadio dello specchio”. La nostra cultura dice nell’essenza che a ciascuno è negata l’immagine del proprio corpo. La vista non può esplorare ciò che sta dietro alle spalle e non può direttamente vedere il proprio viso e quello che esprime; neppure lo specchio può svolgere questa funzione in quanto ci rimanda dei riflessi “speculari” e quindi capovolti.
L’immagine di noi che ci costruiamo è sempre soggettiva, e rappresenta un’astrazione da stimoli percettivi.
Tale conclusione è analoga a quello che la Bibbia dice di Dio “non ne avrai immagine alcuna”. In altri termini Narciso “non avrà mai immagine del proprio corpo”.
Narciso ha una dimensione divina, e come tale mai entrerà nel campo dell’umano. Narciso non è uomo, si avvicina a Dio.
Eppure siamo capaci di “immaginarci” e, a volte, di “autoritrarci”, e molto spesso gli altri ci riconoscono, nel nostro autoritratto.
In qualche maniera siamo in grado di “riconoscerci”, entrando nel Noi e distinguendoci dal Voi. Lo specchio ci rimanda un Noi che è artefatto ma è un Noi esperito e non allucinato e si differenza non confondendosi, dall’Altro. Il Noi non è sicuramente solo un non-Noi. La nostra immagine emerge da Noi, dal riflesso dell’Altro. Pensiamo che la nostra Immagine sia in Noi, ma si materializzi (emerga) solo nel rapporto dell’esistere.
II superamento della vergogna di Sé rappresenta ii momento centrale per l’emergere della propria immagine; la presenza della vergogna induce un desiderio di sparizione da quella situazione per sprofondare nella terra profonda. Per stare sulla terra dobbiamo confonderci con l’Altro, identificandoci.
I nostri ricordi ci riportano all’ombra, alla nostra immagine riflessa nello specchio, alle scissioni che abbiamo fatto per difenderci dall’angoscia seguente all’esperite vergogna e colpa.
La relazione terapeutica
Nella relazione terapeutica si agisce la “presenza del rapporto” e i membri della stessa cominciano ad “esistere” all’ interno di uno spazio e di un tempo definito. Spazio e tempo cominciano ad agire in termini “soggettivi” (hanno un significato solo all’interno del loro rapporto); ii lavoro terapeutico sarà quello di trasformare questa dimensione in entità “oggettiva” (che va oltre – pur comprendendolo – ii rapporto diadico, privato).
Lungo e dentro questo percorso, si sviluppa la costruzione dell’identità personale, nelle sue dimensioni private e di rapporto (pubbliche), fino all’acquisizione del sentimento e della consapevolezza oggettiva di salute.
Lo spazio – anche virtuale – che separa terapeuta e paziente è allo stesso tempo metafora di separazione e spazio “inerte” del rapporto desiderato e rifiutato (allontanamento, nell’attesa di…) in quanto temuto come trasformativo: il paziente si sente incapace di trasformazione, e quindi “fantastica” la sua incapacità/inadeguatezza attuale come eterna.
La presenza si trasforma in “confronto” e la presenza diventa “co-presenza”. Lo “spazio fra…” diventa una corsia a doppio senso di marcia, nella quale le due direzioni di percorso non sono – mai – separate da barriere.
I sentimenti di vergogna con colpa ed impotenza/inadeguatezza compaiono all’interno del rapporto, determinando il ritiro e la “sparizione” delle singole presenze, in un “congelamento” dell’esistenza, in un’atmosfera rarefatta senza limiti ed indeterminata, in cui sospetto e terrore dominano.
Si creano le condizioni per la materializzazione ed oggettivizzazione delle “ombre” e dei “doppi”, sempre perturbanti, simboli dei bisogni di cambiamento e della paura/impossibilita di agirli. L’inadeguatezza del confronto crea la vergogna a negazione/sparizione della colpa.
II terapeuta diventa ii doppio, ii riflesso speculare del soggetto, la sua immagine riflessa ed invertita e proiettata; tale resta finche ii paziente non si riappropria della propria immagine.
I fantasmi e le ombre (allucinate) che stanno fra e nello spazio del rapporto cessano di essere parti del Sé allucinate per diventare “oggetti” che “sono” in quanto tali (e con una loro funzione oggettiva) e non in quanto parti espulse e non accettate.
La relazione cessa di essere spazio virtuale, fantasmatico di rapporto, per diventare tramite (percorso) in cui parole e gesti si scambiano nelle due direzioni nel loro valore oggettuale. Colpa e vergogna cessano di essere sinonimo di impotenza e morte-sparizione, per essere potenzialità e pudore.
Due soggetti si confrontano e si rapportano scambiandosi oggetti e non simboli e fantasmi.
Una metafora
Nel racconto di Conrad ii capitano della nave e l’ufficiale Leggatt si incontrano “diversi” ma nel segreto del loro rapporto nella cabina, si instaura una relazione che porta a una piena intimità, nella quale matura la decisione di separarsi.
I due protagonisti maturano i loro specifici ruoli, e questo rende possibile la realizzazione del loro progetto.
” … sì, feci in tempo ad avere una visione evanescente del mio bianco cappello rimasto indietro a segnare ii punto in cui il mio segreto compagno di cabina e di pensieri, quasi fosse un altro me stesso, s’era calato in acqua per scontare la sua pena; un uomo libero, un prode nuotatore verso un nuovo destino”.
Ed ancora: “La grande massa oscura dell’isola che incombeva proprio sulla testa degli alberi cominciò a ruotare via silenziosa dalla murata della nave… Mi occorreva qualcosa di facilmente visibile, un pezzo di carta, che potessi gettare in mare ed osservare… Riconobbi il mio stesso cappello a cencio. Doveva essergli caduto dalla testa ed egli non se ne era curato… Ah, derivava in avanti avvertendomi appena in tempo che la nave andava indietro. “Cambia la barra” dissi a bassa voce al marinaio ritto e fermo come una statua”.
II capitano acquisisce conoscenze e competenze attraverso il simbolo del cappello donato e ritrovato. L’oggetto ritrovato ha il senso di un qualcosa che si “scopre dentro” arricchito di significato.
Una conclusione
Nella lingua italiana i termini “eticità” ed “etico”, come sostantivo ed aggettivo, hanno i seguenti significati (Devoto-Oli): “eticità” = Carattere etico… nelle istituzioni umane la libertà si realizza oggettivandosi, passa cioè dalla sua astratta espressione individualistica alla universalità concreta; è “etico” tutto ciò che riguarda ii momento pratico della vita, in quanto valutabile col principio di distinzione fra bene e male.
I concetti di etico ed eticità (ethos) implicano quello di comportamento e quindi di azione, adulta e matura, in risposta – ed in funzione – di un luogo ed uno spazio (con i loro contenuti) entro cui dispiegare l’agire. I valori e le idee da astratti e soggettivi (morali) diventano reali ed oggettivi (etici).
Nella relazione terapeutica si confrontano due realtà ed organizzazioni che trovano nel lavoro reciproco – condiviso – un piano di “confronto etico” per raggiungere un esistere “libero” ed “autonomo”, nel rapporto – e non solo col singolo – condivisibile, oltre che condiviso.
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