Depressione e malattie neurologiche: dal problema della classificazione e della diagnosi alla epidemiologia

Marcello Nardini, Immacolata d’Errico

Cattedra di Psichiatria-Corso di Laurea in Odontoiatria e Protesi Dentaria, Università degli Studi di Bari
Atti del Convegno “Riunione di Ottobre 1996” – Società Italiana di Neurologia – Sezione Appulo-Lucana

Riteniamo opportuno ed utile anteporre alla proposizione di quanto si conosce in termini di prevalenza di disturbi depressivi in corso di malattie neurologiche, alcune considerazioni di ordine generale necessarie alla comprensione dei rilievi epidemiologici e al loro utilizzo nella pratica clinica diagnostica e terapeutica.

L’epidemiologia è una scienza che mira allo studio della frequenza e della distribuzione di una data malattia in una determinata popolazione per un certo periodo di tempo (computo dei casi in termini di incidenza e prevalenza), al fine di rilevare le cause o per lo meno le condizioni che provocano o facilitano la diffusione del fenomeno morboso preso in esame. Le finalità operative sono indirizzate alla conoscenza delle origini delle malattie, della loro patogenesi e dei fattori che ne determinano la comparsa e la diffusione nella prospettiva della messa in atto di strategie terapeutiche e profilattiche adeguate alla loro eliminazione e alla acquisizione della salute.

Il problema della identificazione e del riconoscimento di uno specifico fenomeno (la malattia) è prioritario per poter avviare e condurre studi epidemiologici validi ed in grado di rispondere agli obbiettivi. È fondamentale quindi risolvere i problemi connessi alla classificazione e alla diagnosi delle malattie oggetto di studio ed indagine.

Infatti mutamenti nelle attitudini e nelle pratiche diagnostiche possono determinare, e de-terminano, mutamenti altrettanto rilevanti in termini di riscontri epidemiologici.

Problemi connessi alla classificazione e alla diagnosi

La classificazione è un processo fondamentale nel conoscere scientifico che permette di ordinare e organizzare il mondo fenomenico in base a caratteri e lineamenti simili o differenti e alle relazioni che intercorrono tra essi. In una prima fase la classificazione adempie a finalità eminentemente pratiche, successivamente viene ad assumere un valore propriamente teorico e diviene essa stessa generatrice di ipotesi da mettere alla prova.

In campo medico un sistema classificatorio adempie alle seguenti funzioni:

  • una funzione di denominazione per la quale un nome (categoria diagnostica) viene attribuito ad un gruppo di fenomeni
  • una funzione di qualificazione che tende ad arricchire il contenuto informativo del nome o della categoria diagnostica
  • una funzione di predizione con lo scopo di fornire un giudizio di natura probabilistica circa il decorso, l’esito e la risposta al trattamento.

Nel processo classificatorio vengono coinvolte le funzioni tassonomiche tese alla demarcazione, alla definizione e alla messa a punto delle categorie conoscitive che saranno utilizzate per la diagnosi e le funzioni diagnostiche che forniscono regole per l’identificazione di uno specifico disturbo in una determinata persona.

Con lo sviluppo delle conoscenze in medicina si è assistito ad un graduale passaggio dalle classificazioni di tipo sintomatologico a quelle centrate sulla identificazione della sede e  natura (criterio morfologico), della natura degli agenti causali (criterio etiologico), di precise disfunzioni biochimiche, di anormalità funzionali, di meccanismi patogenetici. In campo psichiatrico questo non è avvenuto per la limitatezza delle conoscenze ezio-patogenetiche disponibili e la indeterminatezza dei correlati morfo-funzionali connessi con l’esistenza dei disturbi mentali. Ne è derivato pertanto che una classificazione basata su sintomi e su costellazioni di sintomi si è imposta come la più agevole e praticabile; in tal senso il disturbo psichiatrico non è altro che la sindrome clinica sua peculiare. La sindrome è rappresentata da un cluster di segni (riconosciuti ed interpretativi sulla base di un sapere medico specifico con valore informativo e probativo per l’esistenza di un disturbo) e sintomi (qualsiasi variazione registrata nell’individuo ammalato) che tendono a presentarsi congiuntamente, ad avere una evoluzione temporale caratteristica ma di cui non è nota la causa. Descrivere ed individuare una sindrome, in campo clinico, non ha il significato di operare una diagnosi; la diagnosi deve fare riferimento ad altri elementi, etiologici (attraverso la individuazione di una causa dimostrata od ipotizzata) ed interpretativi (ipotizzando meccanismi alla base della comparsa della sindrome). Si può pertanto concludere che l’operare diagnostico ed il sapere clinico si costituiscono a partire dall’interazione fra un aspetto descrittivo ed un aspetto interpretativo.

La classificazione e la diagnosi dei disturbi mentali avviene secondo modelli ed approcci predeterminati che non debbono essere visti come mutuamente esclusivi:

  • il modello gerarchico o verticale organizza le varie categorie tassonomiche in una serie di livelli differenziati nei quali i livelli più bassi sono assunti come parte di quelli più elevati. È il modello classico della diagnosi in medicina che opera secondo alberi decisionali
  • il modello multiassiale o orizzontale in cui varie classi di sintomi sono ordinati in una serie di categorie parallele o allineate. È un modello estremamente utile nella pratica clinica che non prevede l’esclusione di sintomi o circostanze ritenute aprioristicamente (gerarchicamente) secondarie. In questo modello si incoraggia la raccolta di tutti i dati e la loro registrazione su assi specifici che vengono ad assumere ruoli precisi sul piano diagnostico e su quello operativo.
  • l’approccio di tipo categoriale in cui le categorie diagnostiche sono ben differenziate qualitativamente e separate nettamente fra loro e mutualmente esclusive
  • l’approccio dimensionale in cui le specifiche entità di malattia vengono considerate come deviazioni quantitative dalla norma all’interno di un continuum di gradazioni diverse della stessa dimensione indagata.

I modelli e gli approcci sopra riportati hanno nella pratica clinica vantaggi e svantaggi:

  • l’approccio categoriale associato al modello gerarchico ha il vantaggio della semplicità di impiego nella clinica e nel training degli operatori, della facilità di utilizzo in campo informatico, della idoneità all’impiego nella pratica epidemiologica e della possibilità di utilizzare delle gerarchie diagnostiche che permettono di sgomberare il campo da fenomeni confusivi e distorsioni conoscitive ed operative. Ha gli svantaggi di non riuscire a classificare i casi al confine tra categorie, di perdere i pazienti che sono sotto la soglia stabilita per la diagnosi, di avere la necessità della creazione di categorie diagnostiche ibride (atipico, misto, etc)
  • l’approccio dimensionale riduce il numero di etichette diagnostiche, facilita la classificazione di casi al confine di differenti categorie, dei casi difficili e della comorbidità. Presenta maggiori problemi e difficoltà nella pratica clinica quotidiana e rende le comparazioni più ardue, è meno funzionale alla ricerca  epidemiologica ed introduce maggiori fattori di distorsione nel campo della ricerca scientifica. Permette l’uso di sistemi di classificazione multiassiali sicuramente più funzionali di quelli gerarchici alla conoscenza della complessità della malattia mentale che è sempre multifattoriale e non riconducibile se non con operazioni astratte e di tipo riduttivistico, ad una condizione di tipo mono fattoriale.

La classificazione e la diagnosi in psichiatria e nella medicina in generale quando questa fa riferimento per la diagnosi al criterio sintomatologico, si svolge di fatto su due assi quello verticale della categoria e quello orizzontale della dimensione. Nel rapporto fra queste due prospettive diagnostiche si ricrea la complessità e la multifattorialità della malattia e del disturbo e si raggiunge il massimo di conoscenza.

Di questo evento, inevitabile nell’affrontare il problema del riconoscimento e della comprensione della malattia, hanno tenuto conto i sistemi diagnostici più recenti (ICD10 e DSM IV) che di fatto sono sistemi misti per cui classificano sia secondo il modello categoriale che secondo quello dimensionale, dopo aver operato la scelta prioritaria di conoscere secondo il modello della categoria e della organizzazione gerarchica.

A conclusione, vorremo riportare altri due aspetti della classificazione nosografica che sono il frutto, operativamente valido, della incompletezza dei modelli diagnostici, dei modelli operazionali ed epistemologici alla base del procedimento classificatorio nosografico e diagnostico:

  • il concetto di spettro che riporta all’interno di un continuum psicopatologico la discontinuità operata dall’ordinamento categoriale
  • il concetto di co-morbidità negli aspetti trasversali (cross co-morbidity) e longitudinali (life time co-morbidity) che tende a superare le distorsioni conoscitive e classificatorie operate dal sistema diagnostico categoriale e gerarchico.

La malattia neurologica è classificata pur essa sulla base di un criterio sintomatologico e quindi categoriale, ma ha l’indubbio vantaggio rispetto a quella mentale di avere maggiori conoscenze in termini di eziologia e patogenesi, di correlati sicuri morfologici e funzionali e di poter disporre di validatori esterni ed obiettivi di diagnosi. Tuttavia nella maggior parte dei casi la diagnosi neurologica si opera attraverso raggruppamenti di sintomi e segni di origine fisica, ponendo i sintomi psichici, mentali e comportamentali sempre presenti in un piano gerarchicamente inferiore e scarsamente influenti od ininfluenti per la determinazione della diagnosi. Questo comporta la creazione di una area di sovrapposizione fenomenica fra malattia neurologica e malattia mentale che produce fattori di distorsione nell’operare la diagnosi differenziale fra i due costrutti diagnostici e nosografici. È   comprensibile l’importanza di questo fattore quando il nostro intendimento di ricerca è quello di misurare la coesistenza di malattia neurologica e mentale. Le interazioni fra malattia neurologica e disturbo mentale sono complesse ed articolate; non sempre hanno relazioni dirette di tipo causalistico, molto spesso sono mediate da meccanismi psicologici e psico-reattivi, talvolta le relazioni esistenti sono in rapporto al tempo e alla fase evolutiva del/dei disturbo/i.

Crediamo che le informazioni debbano essere organizzate secondo i seguenti livelli:

  • sindromi psichiatriche di origine neurologica
  • sintomi o sindromi a fenomenica psichiatrica che costituiscono segno di malattia neurologica
  • disturbi psichiatrici di origine neurologica organica (disturbo mentale organico)
  • disturbi psichiatrici che compaiono in risposta alla comparsa e/o persistenza della malattia neurologica; possono essere transitori (sindromi reattive e post-traumatiche, evento correlate) o organizzarsi in disturbi psichiatrici autonomi e con un loro specifico sviluppo temporale
  • disturbi psichiatrici la cui comparsa è determinata dall’insorgenza della malattia neurologica e proseguono successivamente in maniera autonoma (disturbo organico di …)
  • co-esistenza di disturbo mentale e disturbo neurologico come entità cliniche e diagnostiche separate e distinte.

Se la neurologia e la psichiatria vogliono ritrovare un rapporto nel campo della ricerca e della pratica clinica riteniamo che si debba rinunciare alla gerarchia dell’organico (neurologia) sul funzionale (mentale) e quindi al modello dicotomico della conoscenza che prevede categorie conoscitive ed oppositive e reciprocamente autoecludentesi. Si dovrà operare per individuare una metodologia clinica comune almeno a livello diagnostico e classificatorio delle varie malattie e disturbi, che unisca il modello classificatorio categoriale (tipico della medicina somatica e da questa completamente fruibile) a quello dimensionale, più consono – anche se non del tutto e compiutamente fruibile – alla medicina del mentale e dello psichico emotivo ed emozionale, ma non esclusivo.

Queste problematiche non sono specifiche unicamente nel campo dei rapporti fra medicina mentale e medicina neurologica, ma si ripropongono nella loro interezza quando si vanno ad affrontare i rapporti fra medicina mentale e medicina internistica, là dove si gioca la partita connessa al problema psicosomatico.

La psichiatria dalla sua prospettiva ha cercato di affrontare il problema a livello della diagnosi e dei sistemi classificatori. I sistemi multiassiali (vedi DSM) hanno previsto l’Asse III in cui va registrata la condizione medica generale congiuntamente al disturbo mentale attuale da collocarsi in Asse I; parimenti ha previsto la categoria diagnostica: Disturbo….dovuto a…. da registrare in Asse I (diagnosi principale). È augurabile che altre branche della medicina, dalla neurologia alla medicina internistica, si muovano in una direzione analoga rivalorizzando la classificazione e la diagnostica delle loro malattie su base sintomatologica in ottica categoriale, ponendo nell’ombra le loro classificazione su base etiologica, morfologica e dimensionale in genere. Crediamo che questo possa rappresentare il piano di incontro fra psichiatri e neurologi/internisti per affrontare il problema della coesistenza di disturbo mentale e malattia neurologica ed internistica in ottica epidemiologica onde poter trarre il massimo di informazioni per l’operare clinico e terapeutico.

Rilievi epidemiologici

Nella letteratura specifica il focus principale della ricerca è rappresentato dalla sindrome depressiva nelle sue varie sistematizzazioni diagnostiche e nosografiche: disturbo di adattamento con umore depresso, depressione in corso di Disturbi d’ansia, Depressione maggiore e minore di tipo distimico, Disturbo bipolare, Disturbo organico dell’Umore. Tuttavia l’attenzione è posta anche e contemporaneamente alla presenza di altri disturbi mentali (disturbi d’ansia, disturbi schizofrenici e schizofreniformi, disturbi dissociativi e di personalità, disturbi psicoreattivi ed emozionali evento correlati – assimilabili in termini di nosografia ai disturbi dello spettro post-traumatico -, condotte suicidarie). Pur essendo queste ultime condizioni meno frequenti, non rappresentano sicuramente un evento irrilevante nell’economia della salute del soggetto con patologia neurologica.

In questa occasione la nostra attenzione è rivolta ai Disturbi dell’Affettività; verranno riportate anche le osservazioni relative alle condotte suicidarie, al rischio di suicidio e al suicidio vero e proprio per le vicinanze psicopatologiche con il disturbo affettivo. Non ci rivolgiamo all’universo delle malattie neurologiche, ma unicamente a quelle che abbiamo ritenuto essere più indicative per la descrizione e la definizione del fenomeno.

Disturbi Affettivi ed Epilessia

In corso di epilessia è di frequente rilievo la ricorrenza di sintomatologia di tipo affettivo. Il disturbo affettivo rappresentato più di sovente è quello depressivo, anche se vengono segnalati casi sporadici di mania acuta e sindromi dello spettro bipolare, di tipo ciclotimico, talora con caratteristiche psicotiche.

Si possono presentare a vari tempi dello sviluppo della malattia epilettica:

  • reazione depressiva alla diagnosi neurologica
  • reazione depressiva per problemi indotti dalla malattia neurologica
  • sintomi depressivi come fenomeno prodromico alla crisi epilettica
  • sintomi depressivi come aura
  • sintomi depressivi come evento ictale
  • sintomi depressivi con insorgenza postictale
  • disturbo depressivo interictale.

In questa occasione ci occuperemo esclusivamente dei disturbi affettivi di tipo interictale. La prevalenza di depressione appare essere elevata; viene riportata in tutta la popolazione con epilessia una prevalenza di depressione oscillante fra il 42% ed il 65% (24%-42% in corso di epilessia generalizzata e 45%-65% nell’epilessia temporale); per le condotte suicidarie le stime nella popolazione epilettica generale indicano il 5%, nell’epilessia temporale il 25%, superiori a quelle della popolazione generale:1.4%, e psichiatrica: 4-5%. Le sindromi cliniche depressive “interictali” sono molteplici ed hanno caratteristiche psicopatologiche   peculiari:

  • depressione maggiore, con prevalenza di sintomi endogeni e vitali;
  •  distimia, con affettività “distaccata” più che disforica;
  • psicosi acuta, con agitazione psicomotoria, sintomi depressivi e comportamenti suicidari;
  • subictal mood disorders: quadro clinico complesso caratterizzato da brevi episodi euforici a connotazione mistica alternati a brevi episodi depressivi con aumento dell’aggressività; i casi più gravi vengono usualmente diagnosticati come disturbi bipolari a cicli rapidi o come disturbi schizoaffettivi o come depressioni con sintomi psicotici, quelli più lievi come ciclotimia o depressioni atipiche.

I dati circa la presenza di episodi intercritici di tipo francamente maniacale sono scarsi; sono stati descritti tuttavia alcuni episodi di ipomania seguiti a crisi parziali complesse.

Le opinioni sul rapporto depressione/epilessia riscontrate nella letteratura anche più recente rimangono ancora contradditorie. A lato della costante conferma di un elevato rapporto e legame fra presenza di epilessia ed insorgenza di depressione rimangono almeno due questioni aperte:1) esiste una relazione positiva fra presenza di depressione e lateralizzazione del focolaio epilettico? ed ancora fra depressione ed epilessia generalizzata, parziale complessa e parziale semplice? 2) le crisi convulsive generalizzate svolgono un effetto protettivo sulla comparsa del disturbo mentale?

In uno studio di Indaco A. e coll. (1992) condotto su 96 soggetti epilettici ambulatoriali, l’epilessia parziale complessa si correlava positivamente con la depressione in rispetto a quella parziale semplice. Non è stata riscontrata alcuna correlazione tra la severità della depressione e la durata dell’epilessia, la frequenza degli attacchi, lo status socioeconomico, l’educazione, una storia familiare di malattia depressiva e nemmeno fra livelli plasmatici di farmaci anticonvulsivanti e depressione. Non si portano conferme riguardo all’esistenza di una relazione tra la sede della lesione epilettica e la severità della depressione. A commento del lavoro gli AA riportano il loro convincimento che la depressione nel paziente epilettico non rappresenti una reazione psicologica alla malattia, ma in qualche modo sia direttamente correlata al tipo di epilessia. Un elegante studio di Victoroff Jl. e coll. (1994) che ha utilizzato la PET per lo studio del metabolismo cerebrale del desossiglucosio, ha riportato una correlazione positiva tra depressione maggiore e ipometabolismo temporale sinistro rispetto a quello destro, indipendentemente dalla lateralizzazione della lesione. Mendez M. e coll. (1994) pongono l’accento sull’effetto protettivo che le crisi generalizzate sembrano esercitare nei confronti dell’emergenza della depressione e, inoltre, sull’effetto facilitante l’insorgenza di depressione maggiore esercitato da una politerapia antiepilettica e con valproato. La patofisiologia di quest’ultimo dato può essere legata sia ad un decremento della frequenza degli attacchi sia ad un effetto neurotossico degli anticonvulsivanti. Gli AA commentano che la mancata generalizzazione potrebbe essere considerata fattore biologico che porta alla depressione.

Ci pare importante segnalare che la strutturazione di queste ricerche non è tale da rendere automatica la loro generalizzazione. Sono evidenze che necessitano di ulteriori ricerche prima di essere ritenute definitive.

Disturbi Affettivi e Morbo di Parkinson

Disturbi psichiatrici accompagnano spesso, e talora sin dagli esordi, il Morbo di Parkinson, anzi a volte lo precedono di anni. La più comune complicanza psichiatrica è rappresentata dalla depressione, che sin dal 1817 James Parkinson descrisse, ritraendo i pazienti con Paralisi Agitante come infelici, scoraggiati e melanconici. Agli inizi del secolo un primo studio (Patrick e Levy,1922) rilevò la presenza di depressione del tono dell’umore nel 25% dei soggetti. Attualmente la prevalenza di depressione viene stimata intorno al 50% con oscillazioni dal 20% al 70% e con punte estreme comprese tra il 4% ed il 90%. Questa dispersione di dati è sicuramente legata a vari fattori quali: la selezione del campione, i criteri utilizzati per la diagnosi di depressione, la presenza di aree di sovrapposizione sintomatologica fra depressione e sindrome parkinsoniana, la adeguatezza degli strumenti di misura. In ogni caso le correlazioni fra Morbo di Parkinson e depressione sono molto strette e sicura-mente vanno al di là di una semplice coesistenza di due diverse malattie.

Un recente studio di Haltenhof H. e Schroter C. (1994) ha riscontrato una frequenza di depressione monopolare pari al 40% in una sottopopolazione di parkinsoniani caratterizzata da marcata rigidità e bradicinesia, più giovani e con familiarità positiva per il morbo di Parkinson.

La depressione in corso di morbo di Parkinson si connota per l’associazione positiva con: età giovanile, decorso lento, precedenti episodi depressivi nei soggetti con insorgenza del Parkinson intorno ai 40-50 anni, presenza di fenomeno on-off durante il trattamento con Levo-Dopa. Nessuna associazione è stata trovata con sesso, gravità della sintomatologia parkinsoniana, aumentato rischio di suicidio.

I quadri clinici più frequentemente rappresentati sono la distimia e la depressione maggiore ricorrente; scarsamente presente l’associazione con il disturbo bipolare; la sindrome è generalmente di grado lieve e moderato, molto spesso precede l’insorgenza della malattia e può mascherare la patologia extrapiramidale motoria e neurovegetativa.

Disturbi Affettivi e Corea di Huntington

La malattia di Huntington si caratterizza per la costante presenza di turbe psichiatriche con prevalenza di disturbi di tipo affettivo intermittente, di disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo e di condotte suicidarie. Huntington stesso infatti considerò l’insanità con tendenza al suicidio una caratteristica fondamentale della malattia. I sintomi della serie affettiva possono precedere dai 5 ai 20 anni l’insorgenza del quadro coreico e rappresentare segno precoce di malattia.

I quadri clinici maggiormente rappresentati sono:

  • depressione psicotica e delirante;
  • disturbo bipolare;
  • mania ricorrente;
  • disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo;
  • condotte suicidarie

Gli episodi depressivi possono durare da settimane a mesi e persistere per molti anni, ma sono responsivi al trattamento antidepressivo classico.

Il rischio di suicidio è molto elevato: è riportata una frequenza del 5.7% di decessi per suicidio (secondo alcuni autori il dato è sottostimato), circa 4 volte superiore alla media della popolazione generale con prevalenza nella fase iniziale della malattia; è stata ancora registrata un’alta prevalenza di condotte suicidiarie in familiari di coreici. Si conferma l’ipotesi iniziale di Huntington che il rischio di suicidio rappresenti una caratteristica specifica della malattia coreica.

Depressione post-stroke

Il fenomeno è stato ampiamente studiato; riporteremo ad esemplificazione tre studi da noi ritenuti significativi ad esplicare e a definire la questione:

Una popolazione di 76 pazienti con stroke è stata seguita da Astrom e coll. (1993) per un periodo di 3 anni; la diagnosi di depressione è stata formulata sulla base dei criteri diagnostici del DSM III. Viene riportata una prevalenza di depressione pari al 25% all’ingresso in studio; al 31% a 3 mesi; al16% a 12 mesi; al 19% a 2 anni e al 29% a 3 anni.

Ai vari punti di osservazione, la depressione era più frequente:

  • all’ingresso
  • in corso di lesione emisferica sinistra (66% versus 8.6%);
  • nelle lesioni anteriori sinistre (85.7%) rispetto a quelle posteriori (28.5%);
  • in presenza di disturbi del linguaggio;
  • quando vivevano soli prima dello stroke (40% versus 15%);
  • a 3 mesi
  • in presenza di disturbi del linguaggio;
  • quando erano dipendenti da altri per attività del vivere quotidiano;
  • quando vi erano scarsi contatti sociali (54% versus 23%);
  • a 2 e 3 anni
  • quando i contatti sociali si mantenevano scarsi (66% versus 7%)
  • quando la TAC rilevava atrofia corticale e sub-corticale (91% versus 46%).

Morris e coll. (1992) hanno studiato una popolazione di 88 soggetti visti dopo 2 mesi dallo stroke. La diagnosi di depressione è stata effettuata mediante intervista strutturata (C.I.D.I.);la gravità della depressione utilizzando la M.A.D.R.S.; la personalità premorbosa valutata tramite il Neuroticism Inventory of Eysenck; gli eventi stressanti utilizzando la List of Threatening Negative Experiences.La frequenza di depressione maggiore rilevata era del 18%, di depressione minore del 20%.

In particolare gli AA. riportano:

  • una più elevata frequenza di depressione minore nei maschi rispetto alle femmine;
  • una storia psichiatrica familiare positiva per disturbi affettivi e d’ansia (44%) nei depressi maggiori rispetto ai depressi minori (17%) e ai non depressi (15%);
  • un punteggio più elevato nella scala del nevroticismo (nei depressi maggiori);
  • un numero più alto di eventi di vita negativi (nei depressi maggiori):
  • punteggi più alti al M.A.D.R.S. nei soggetti depressi con storia psichiatrica, personale e familiare, positiva.

Questo importante studio qualifica come predittori di depressione la storia positiva per disturbo psichiatrico di tipo affettivo e d’ansia; il sesso maschile: l’età più avanzata; il grado di disabilità più elevata. Il rischio di depressione, quindi, va dal 23% (nessuna familiarità psichiatrica, tratti di neuroticismo e almeno un evento di vita negativo) al 62.5% quando tutti i fattori sono presenti.

In una successiva ricerca lo stesso Autore (1993) ha studiato la correlazione mortalità/depressione post-stroke riportando le seguenti risultanze:

  • i pazienti che erano depressi al momento della prima osservazione hanno una probabilità tre volte superiore di morte entro i 10 anni;
  • la mortalità si associa oltre che alla depressione anche all’assenza di supporto sociale (confermando in tal modo anche i risultati del primo lavoro riportato);
  • l’estensione della lesione e la disabilità fisica sono ininfluenti nel determinare la mortalità.

Questi dati aprono nuove prospettive ed attivano nuove strategie terapeutiche in cui la cura del disturbo psichiatrico e del disagio psico-sociale è parte integrante della terapia dello stroke nella fase acuta e sub-acuta nonché di quella profilattica verso recidive e del rischio di morte.

Depressione e Sclerosi Multipla

La patologia depressiva è segnalata come una complicanza molto frequente in corso di Sclerosi Multipla (S.M.). Segnalazioni in tal senso si ritrovano nello sviluppo storico della malattia a partire dai primi scritti di Charcot nel 1877. La prevalenza di disturbi dello spettro depressivo è mediamente calcolata fra il 15% ed il 60%. Un dato ci pare importante da segnalare: negli studi precedenti il 1980 era riportata una prevalenza di depressione compresa fra il 6% ed il 9%. mentre negli studi successivi al 1980 si riferiscono tassi di prevalenza compresi fra il 15% ed il 54%. A nostro parere due fattori intervengono a determina-re questo fenomeno: a) le variazioni intervenute nei sistemi classificatori e diagnostici che hanno rimosso dal linguaggio nosografico il concetto di nevrosi e di sindrome reattiva; molti dei quadri clinici definiti come nevrosi si collocarono all’interno delle definizioni nosografiche di distimia (alternativa al concetto di nevrosi depressiva), di sindrome ansioso-depressiva e di disturbo di adattamento con umore depresso e, soprattutto, vennero compresi nella categoria diagnostica Disturbi dell’Umore: b) differente individuazione della popolazione in studio; nel tempo si è sviluppata la metodologia di indagine tesa a misurare la prevalenza nell’intero periodo di malattia, e non solo nelle fasi attive o di quiescenza. Considerando la prevalenza rispetto allo sviluppo temporale della S.M. si riporta: nella fase iniziale della malattia esiste una alta frequenza di disturbi depressivi con un tasso stimato intorno   al 65% ed una prevalenza della Depressione Maggiore (40%) sul Disturbo di adattamento con umore depresso (22%); nelle fasi più tardive è stata registrata una prevalenza relativa di quadri di tipo distimico (Sullivan e coll,1995).

Il rischio di suicidio è calcolato alto, fino a 14 volte superiore rispetto alla popolazione di controllo sana o affetta da malattia spinale di origine traumatica ed appare correlato con la presenza di depressione maggiore in corso di malattia e lifetime (Kahana e coll,1971). Correlazioni positive sono state trovate con la perdita del ruolo sociale e della capacità ad utilizzare il tempo libero per attività (Stenager et al., 1991).

I disturbi bipolari in corso di S.M. sono riportati con una frequenza di circa il 13% e secondo alcuni autori (Schiffer et al., 1986) l’incidenza è doppia rispetto ai tassi riscontrati nella popolazione generale (intorno all’1%). Il dato va sicuramente riconsiderato e confermato anche perché potrebbero esservi stati inseriti i quadri di eutonia e/o di oscillazioni croniche dell’umore nelle due polarità con andamento ciclotimico (non assimilabili ad episodi di euforia maniacale né ad una vera e propria ciclotimia all’interno dell’area bipolare e rapportabili a lesioni organiche situate a livello dei lobi frontali e della regione limbica nonché alla compromissione cognitiva per lesioni corticali). Il tutto ci riporta a considerare il problema della frequenza del Disturbo depressivo organico in corso di sclerosi multipla. Alcuni dati infatti riportano correlazioni significative fra frequenza di depressione, alterazioni cognitive e lesioni neuromorfologiche a livello delle regioni fronto-temporali e limbiche.

Vorremmo concludere il complesso problema dei rapporti fra depressione, e disturbi psichiatrici in genere, e S.M. con una ultima annotazione; è segnalato che frequentemente vengono annotati nella storia di soggetti con S.M. episodi di depressione maggiore talora con caratteristiche psicotiche, ma anche di sindromi deliranti-allucinatorie e episodi di ansia acuta con manifestazioni somatiche associate, che precedono di molti anni l’insorgenza del primo episodio di S.M.. Questa osservazione potrebbe far ipotizzare una correlazione etio-patogenetica fra disturbo mentale e S.M. di cui il meccanismo immugenetico rappresenterebbe il linking (Minden e coll., 1990). E’  una  ipotesi suggestiva, tutta ancora da verificare.

I dati sulla frequenza di disturbi depressivi e d’ansia, in corso di S.M. sono numerosi (ne abbiamo presentato una breve sintesi) ma non conclusivi. La complessità del quadro sindromico della S.M., parallela alla presenza di lesioni organiche multiple a livello corticale e sottocorticale in aree che intervengono nelle regolazioni delle emozioni, degli affetti e delle funzioni cognitive superiori, pone il problema della diagnosi differenziale fra sintomi psichiatrici segno di malattia neurologica o di malattia mentale. Occorre impostare protocolli di indagine articolati e complessi da proporre ad una casistica molto numerosa.

Considerazioni conclusive

I dati proposti ci permettono di affermare che al momento non è possibile dare una misura epidemiologica sicura della prevalenza di disturbi mentali di tipo depressivo nella popolazione di soggetti con malattia neurologica.

Seppur nella dispersione estrema delle prevalenze riscontrate (in parte reali ed obbiettive, in gran parte legate ad inadeguatezza dei modelli sperimentali e degli strumenti diagnostici e di misura utilizzati), un dato emerge chiaramente: la co-presenza di una sintomatologia depressiva da collocarsi all’interno dello spettro fenomenico che va dalla sfera delle alterazioni emotivo-emozionali a quella in cui le caratteristiche psicopatologiche sono più indicative di malattia vera e propria, è una evenienza altamente frequente e sicuramente superiore a quella riscontrata nella popolazione generale, stimata intorno al 20%.

Rappresenta un problema non eludibile: la coesistenza di malattia neurologica e disturbo depressivo -indipendentemente dai meccanismi psicopatogenetici che ne hanno determinato l’insorgenza – peggiora la prognosi e l’evoluzione a lungo termine della malattia neurologica in termini di recupero funzionale, risposta al trattamento e di recidive della malattia. Diventa quindi inevitabile operare per poter precocemente individuarne l’esistenza e mettere in atto strategie terapeutiche adeguate e funzionali agli obiettivi attuali e futuri. Ma il problema si potrebbe porre in maniera antitetica: quanto la preesistenza di un disturbo mentale può favorire la comparsa della malattia neurologica e quindi determinarne la prognosi? Non è sicuramente possibile arrivare ad una risposta esaustiva, crediamo che questa possa essere l’occasione per porre il problema, attirare l’attenzione dei clinici e dei ricercatori.

Vorremmo porre ancora un’altra problematica: quanto la comparsa e la presenza di una malattia neurologica può favorire o addirittura mettere le basi per lo sviluppo di un disturbo mentale; e tutto questo indipendentemente dai meccanismi patogenetici e fisiopatogenetici sottesi? È una questione posta che non attende una risposta immediata. È la proposizione di uno spazio di ricerca dove poter dare senso e significato all’operatività interattiva neuropsichiatrica.

I meccanismi attraverso i quali possiamo spiegarci la comparsa di un disturbo mentale o di una sindrome mentale in corso di malattia neurologica non sono sicuramente univoci; possiamo prevedere:

  • risposta individuale allo stress rappresentato dall’emergere clinico della malattia: il modello conoscitivo per questa evenienza potrebbe essere rappresentato dal Disturbo post traumatico da stress, o, meglio, dal Disturbo da stress acuto nelle loro varie sottospecificazioni
  • comparsa di malattia neurologica che contiene sintomi e segni di disturbo mentale: è il caso delle sindromi schizofreniformi (più spesso assimilabili a sindromi schizoaffettive e/o disturbi dell’umore con caratteristiche psicotiche o miste) e depressive in corso di epilessia temporale non totalmente sovrapponibili ai rispettivi Disturbi Mentali funzionali, e del quadro clinico individuato in corso di Sclerosi Multipla e definito come eutonia, ben differenziabile dall’euforia maniacale e dalla mania euforica e con aree di sovrapposizione fenomenica con la moria
  •  malattia neurologica che si inserisce su un preesistente disturbo mentale
  • disturbo mentale attivato dalla presenza della malattia neurologica sulla base di una vulnerabilità specifica preesistente.

Sono evenienze che non sono uniche, possono presentarsi a vari tempi nel corso dello sviluppo della storia della persona malata e della sua malattia, in una rete di interazioni estremamente difficile da decifrare e descrivere in ogni suo dettaglio ed in tutte le combinazioni possibili

Ed infine ancora una ultima considerazione che riguarda la posizione ed il punto di vista con cui il clinico ed il ricercatore osservano e descrivono secondo dimensioni di malattia, il soggetto che presenta o propone contemporaneamente sintomi e segni di malattia fisica e mentale. Molto spesso le strategie diagnostiche si strutturano a partire dai punti di vista e dalle opinioni che si hanno al riguardo di quel dato individuo e di quella data malattia. L’affidabilità e la concordanza della diagnosi può infatti risentire di variabili che nulla hanno a che fare con l’oggettività, ad esempio le condizioni ambientali, le aspettative, le motivazioni, i punti di vista e le opinioni.

Fare una riflessione approfondita su questa constatazione ci pare di tutto interesse e funzionale alla creazione di una buona base per il lavoro clinico e di ricerca. Teniamo a rimarcare che questo è ancora più importante in un campo operativo in cui lo psichico/mentale ed il somatico/neurologico si avvicinano tanto da apparire fusi ed indistinti pur non essendoli di fatto.

Le strategie più frequentemente utilizzate per la diagnosi di disturbo mentale in un paziente con malattia somatica (all’interno della quale includiamo anche la malattia neurologica) sono di seguito elencate:

  • strategia inclusiva, in cui si prendono in considerazione tutti i sintomi indipendentemente dal fatto che siano causati da malattia fisica o mentale. Meccanismi diagnostici successivi porteranno alla diagnosi specifica
  • strategia esclusiva nella quale vengono eliminati tutti quei sintomi che appaiono ambigui
  • strategia sostitutiva in cui i sintomi somatici ambigui vengono rimpiazzati da sintomi psichiatrici chiari
  • strategia eziologica; si basa su un giudizio clinico atto ad individuare le componenti psichiatriche e medico-somatiche dei sintomi.

Tutto ciò rende ragione della complessità e della problematicità della diagnosi. Ognuna di queste strategie ha le sue potenzialità ed i suoi limiti, ed una non è esclusiva dell’altra. È compito del clinico e del ricercatore utilizzare in un preciso momento la strategia più adeguata agli obbiettivi da raggiungere nella consapevolezza delle singole limitatezze e delle singole potenzialità.

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