Il vino d’Arabia
Adesso parleremo del “vino d’Arabia”! Cosa è il vino d’Arabia? Ma come non lo conoscete? O forse tutti lo chiamate la “Bevanda del Diavolo”? Ma sì, tutti voi, tutti i giorni bevete una tazza di questa bevanda prelibata; e se incontrate una persona cara, non potete fare a meno che condividere con essa questa bevanda in qualunque ora della giornata! Avete bisogno di lavorare meglio o di mettere in campo tute le vostre capacità attentive ed intellettive, bevete un poco di Bevanda del Diavolo! Pensate che sul fondo delle tazze dove è stata questa bevanda qualcuno riesce a leggere il futuro! Avete capito stiamo parlando di quell’altro gioiello che è il caffè.
Partiamo innanzitutto dall’origine del nome. Secondo alcuni deriva dal termine arabo Qawha, che significa eccitante. Secondo altri deriva da Caffa, città dell’Etiopia, luogo in cui sono state ritrovate le prime piante di caffè.
A partire dal XIII-XIV secolo, gli Etiopi lo portarono nello Yemen, e da qui si ebbe la diffusione a tutta la Penisola Arabica.
Alla fine del XV Secolo erano già sorte dei luoghi appositi per berlo. A Istanbul, intorno al 1554, sorsero le prime caffetterie, che furono denominate “qahveh” (o “khaveh”).
Nel XVI secolo Il Cairo divenne uno dei principali centri di smistamento e diffusione del caffè. L’espansione dell’Impero Ottomano diede un grande contributo alla sua diffusione: forniva caffè fino alle porte di Vienna, eludendo ogni disposizione doganale. La diffusione fu favorita soprattutto dalla religione islamica, che proibiva di bere vino, e permetteva l’assunzione di caffè. I mistici sufi lo usavano per rimanere desti durante le veglie di preghiera. Mentre i sultani vietarono alle donne di berlo.
Nel XVII secolo, “il vino d’Arabia” giunse infine in Europa (Venezia), anche se già un secolo prima era possibile trovare i semi della Coffea arabica, venduti a prezzo altissimo dagli speziali, come medicamento. Il veneziano Pietro Della Valle, fu il primo ad aprire uno spaccio di caffè in Italia, nel 1615. Un secolo dopo, nel 1720, in piazza San Marco apriva i battenti il celebre caffè Florian, che ancora oggi vanta il titolo di “caffé più antico del mondo“.
Quindi, il caffè prese piede anche in tutta Europa, con il boom delle botteghe del caffè: già verso la fine del ‘600 nel Regno Unito se ne potevano contare oltre tremila, Parigi e Londra all’inizio del ‘700 ne vantavano almeno 300, mentre Vienna soltanto 10.
Inizialmente il caffè fu visto con sospetto dalla Chiesa, che tentò di confinarlo ai margini della vita sociale, nella convinzione che fosse un diabolico raddoppiatore dell’io, capace di rendere vigili, loquaci e disinibiti i caratteri più morigerati, visto che si andavano diffondendo le voci sul potenziale afrodisiaco della bevanda! Un teologo della Sorbona, il frate maronita Antonio Fausto Nairone, riprese una leggenda, secondo cui l’arcangelo Gabriele aveva offerto il caffè al profeta Maometto, il quale dopo averlo bevuto “disarcionò in battaglia ben quaranta cavalieri e rese felici sul talamo addirittura 40 donne“.
Papa Clemente VIII, all’inizio del ‘600, si rifiutò di mantenere la proibizione, come chiedevano i suoi consiglieri. (Grazie Papa Clemente!) Nel 1732 il compositore tedesco Johann Sebastian Bach scrisse una cantata il cui testo descriveva l’angoscia di un padre desideroso di guarire la figlia dalla passione del caffè, passione condivisa dalla maggior parte delle fanciulle di Lipsia. Dipendenza da caffeina?
I caffè (intesi come luoghi dove si consumavano le bevande a base di caffeina) hanno avuto “una doppia anima”: da un lato erano luoghi di aggregazione e convivialità disimpegnata, dall’altro divennero spesso sedi di dibattito (perciò furono chiamati “scuole di saggezza”). Questi locali erano frequentati da uomini colti e da letterati, che si davano appuntamento per conversare e bere caffè fino a tarda notte, tenuti svegli dalle proprietà eccitanti della caffeina. Per cui si comprende come divennero i caffè divennero anche luoghi dove si alimentava la contestazione politica, tanto che nel 1676 ci fu il tentativo, di non lunga durata, del Procuratore Generale di Londra, di chiudere le coffee houses, nel timore che si trasformassero in covi di insurrezionalisti.
In Francia, divenne famoso un locale aperto nel 1686 da un siciliano, Francesco Procopio, che prese il nome dal suo fondatore: “Café Le Procope”, che fu meta di filosofi, artisti, uomini politici e scrittori, e divenuto poi sinonimo di circolo letterario.
Per comprendere l’importanza che il caffè aveva raggiunto basti pensare alle parole che il filosofo francese Montesquieu (1689-1755) dedica alla nostra bevanda: «Il caffè ha la facoltà di indurre gli imbecilli ad agire assennatamente». Si potrebbe testare l’efficacia sulle facoltà mentali del caffè, offrendone una tazza ad una persona non troppo intelligente!
Nel ‘700, anche in Italia il caffè diventa estremamente diffuso e popolare, tanto da essere protagonista di una commedia teatrale di successo di Carlo Goldoni, La bottega del caffè, del 1750. Gli stessi caffè letterari acquisirono un ruolo rilevante nella cultura italiana. Un gruppo di pensatori liberali (e frequentatori di caffè), capeggiati dal filosofo Pietro Verri, fondò una rivista che appunto fu chiamata Il Caffè (1764-1766), che diede un contributo fondamentale alla diffusione dell’Illuminismo.
Nel frattempo cresceva enormemente l’interesse intorno alla sua commercializzazione, tanto che alcune potenze economiche si posero l’obiettivo di togliere agli arabi il monopolio sulla bevanda. Ci riuscì per prima l’Olanda nel 1690, quando trafugate alcune piantine di caffè, le piantò nei suoi domini nello Sri Lanka e a Giava e si impose di conseguenza come punto di riferimento del mercato europeo del caffè, tramite la Compagnia delle Indie Orientali. Per il mezzo secolo successivo gli olandesi (e la Compagnia delle Indie) rimasero i padroni dei commerci europei, fino al clamoroso passo falso. Nel 1714 il borgomastro di Amsterdam offrì al re di Francia, Luigi XIV, come “speciale curiosità” due piante di caffè in fiore, che vennero collocate nelle serre reali di Versailles. Qui avvenne un clamoroso furto di caffè: un ex-ufficiale di marina, Gabriel Mathieu de Clieu, rubò infatti un arbusto e, attraverso mille avventure, lo trasportò oltre l’Atlantico, dando inizio alla coltivazione di caffè nella Martinica francese, un’isola delle Antille. Nel 1726 il ladro di caffè fece il suo primo raccolto. Nei cinquant’anni successivi, le piantagioni della Martinica riuscirono a soddisfare la domanda europea; ed ovviamente le piantagioni si estesero a tutta l’area caraibica (Haiti, Giamaica, Cuba e Portorico).
Dal ‘700 a Napoli si è affermato una variante del caffè alla turca, che prevede di cuocere la polvere dei chicchi macinati, stemperandola in acqua in un bricco di rame poggiato su braci o sabbia calda, procedura ancora oggi praticata in Turchia e Nord Africa. Da noi, si è diffusa diffuse la cottura napoletana nella “cuccumella”, che prevede il filtraggio dell’acqua bollente, fatta colare dall’alto attraverso la polvere di caffè.
Nel 1902, a Milano, nacque la macchina per l’espresso, grazie all’invenzione dell’ingegner Luigi Bezzera: una macchina che sfruttava l’alta pressione per filtrare il macinato. L’imprenditore Alfonso Bialetti nel 1933 mette a punto la “moka”, in cui l’acqua in ebollizione sale dal basso.
Attualmente in testa alla classifica del consumo complessivo di caffè, ci sono gli Stati Uniti (16% del totale), seguiti dal Brasile (11%). Ma il record del consumo pro capite va al Nord Europa: prima la Finlandia, poi Danimarca e Svezia. Strano a dirsi, ma in Italia, i consumi di caffé si attestano a meno della metà rispetto al Nord Europa.
Ci sono innumerevoli siti su Internet, che spiegano come preparare un buon caffè alla napoletana. … Però, per raggiungere la perfezione nel caffè bisogna riferirsi ai consigli che dispensa Eduardo De Filippo nella Commedia “Questi Fantasmi”! Per preservare l’aroma del caffè Eduardo suggeriva un sistema casalingo a suo dire infallibile: “il coppitiello”, un cono di carta da inserire nel beccuccio della caffettiera al momento del filtraggio.
La canzone napoletana classica non poteva dimenticare il caffè e tutti ricordano questi versi: “Ma cu sti mode, oje Brìggeta, tazza ‘e cafè parite: sotto tenite ‘o zzuccaro, e ‘ncoppa, amara site…”,’ [A tazza ‘e cafè, scritta da Giuseppe Capaldo e musicata da Vittorio Fassone] che costituiscono l’omaggio a una ragazza ritrosa e al caffè, che da un lato rivela dolcezza e dall’altro riserva l’amaro mistero della sua natura…
E poi … “A tazzulella ‘e cafè” del nostro mitico Pinuccio!