La “schizoaffettivitá” come modello operativo di “area intermedia” nella conoscenza della psicosi
- Marcello Nardini
- Marcello Nardini
- Marzo 4, 1989
Marcello Nardini, Mario Rossi Monti
New Trends in Schizophrenia – Nuovi orientamenti conoscitivi e comprensivi e prospettive terapeutiche e riabilitative in tema di schizofrenia. Fondazione Centro Praxis”. S. Maria a Vico (CE), 1989.
La psichiatria e lo psichiatra avvertono da sempre l’esigenza di individuare un proprio statuto metodologico, teorico e di pratica, con la finalità di proporsi come “disciplina scientifica”.
Modelli conoscitivi ed operativi sono stati di volta in volta mutuati, nel tentativo di derivarne una identità e credibilità.
Il timore, spesso negato, di essere condannata ad una esistenza isolata e solitaria, ha spinto la psichiatria a numerosi “matrimoni esogamici”(Callieri), legittimanti; solo apparentemente sono risultati “fruibili” e “fruttiferi”. La continua e talora esasperata ricerca all’esterno di una “ragione per esistere” contiene il rilevante pericolo di un agire dominato dalla “bramosia” piuttosto che dallo “scambio/rapporto dialettico”, con potenzialità mutative e trasformative.
Lo psichiatra e la psichiatria si muovono costantemente all’interno di una “rete mirabile” nelle cui maglie si rintracciano tutti gli elementi del sapere; una tale immagine può descrivere una condizione evocativa di una posizione conoscitiva globale ed armonica; può rappresentare una “fantasticheria onnipotente ed omnicomprensiva” che ha funzione di negazione delle capacità di separazione e di identificazione; può simboleggiare il “caos primordiale” indifferenziato, “immobile in un continuo movimento”.
Per la psichiatria e per lo psichiatra, la paura della solitudine induce ad accettare una posizione ambigua (sostenuta da meccanismi quasi maniacali) costantemente “sospesa” su un mare solcato dai vascelli delle altre discipline, sempre pronta a prendere quello che pare il suo bene ovunque lo trovi o creda di trovarlo (Rumke,1950 -citazione -). Una tale posizione contiene sentimenti e vissuti di impotenza ed inadeguatezza, sorti e mantenuti dalla costrizione a dover fluttuare fra gli estremi di una psichiatria della “mente” e di una del “cervello” elidentisi a vicenda (negazione reciproca) pena l’acquisizione di una posizione riduzionistica, rifiutata non appena acquisita per difesa da una accettazione dogmatica ed ideologica. Approdare ad un “riduzionismo” sia esso biologico, psicosociale o psicologico, esplicitato in teoresi conoscitive o implicito nella pratica psichiatrica, è senz’altro attraente e seduttivo in quanto permette di mantenere vivo il fantasma onnipotente di una capacità riparatrice, falsando dall’origine ogni approccio psichiatrico. La psichiatria necessità al contrario della consapevolezza della necessità di abbandono di tendenze megalomaniche di comprensione e guarigione totale per sostituirle con la consapevolezza del compito che l’attende: il rapporto con il mondo non misurabile del “folle” e della “follia” che travalica ogni “potenza” legata all’uomo (rapporto con il reale).
Il fascino del “riduzionismo ontologico” (Jablensky, citato da Pazzagli) rappresenta la chimera della psichiatria e si concretizza in una “paralisi” operativa, in gran parte analoga alla fatica di Sisifo, ed in un abbandono di ogni prospettiva di mutazione/progresso.
Lo strumento che ci pare in grado di indurne il superamento sta nella capacità di accettare i “limiti” del conoscere e dell’agire nella loro indefinitezza, come “luoghi di scambio e di rapporto” (membrane semipermeabili) piuttosto che “luoghi oltre i quali non si può andare (barriere invalicabili) (Elkana, 1979). Significa abbandonare la posizione “sospesa” a cui si è fatto riferimento per scendere ad abitare il “proprio vascello” imparando a muoversi con disinvoltura sulla tolda, e a “navigare in formazione con la propria potenzialità” (autonomia).
Lo spazio (mare) che divide i singoli vascelli verrà continuamente “abitato” da “elementi indifferenziati” che diventeranno “elementi specifici e strutturali” non appena saranno accolti nei singoli spazi (individuali). Riteniamo che in quello spazio, dinamico e propositivo nella sua indeterminatezza, si collochi la specificità della conoscenza e dell’agire psichiatrico. Tale posizione non è più ambigua, è solo conflittuale (carica di “tensione a” e di creatività) e nel suo continuo movimento e mutamento risiede il senso del cambiamento e della conoscenza. La legittimazione della psichiatria e dello psichiatra è ed è posta, né “dentro” né “fuori”, ma “fra”, in un’area intermedia, relazionale, luogo e spazio privilegiato per il conoscere psichiatrico.
A parere nostro, l’ambiguità della psichiatria che Cargnello nel 1980 rapportava all’esigenza di oscillare tra “l’essere-con-qualcuno” e “l’aver-qualcosa di fronte”, viene in questa maniera superata togliendo la psichiatria e gli psichiatri da una posizione in gran parte “depressiva” per avviarli verso un lavoro di mutamento e cambiamento graduale, adulto e fruttifero (acquisizione di identità ed autonomia).
Questo ci pare essere il riferimento teorico entro cui collocare le nostre considerazioni sul tema delle “schizoaffettività”. Questo concetto ha rappresentato prima che una sindrome una modalità di vivere la psicosi. Variamente interpretata e collocata dai vari AA. in questi ultimi 100 anni di ricerca psichiatrica, non ha mai trovato una sua precisa collocazione nosografica e neppure una sicura precisazione psicopatologica. Continuamente oscillante fra la psicosi affettiva e quella schizofrenica, continuamente definita e ridefinita, quasi mai ha trovato una sua identità. E neppure nei più recenti sistemi nosografici (DSM III e DSM III-R) si ritrova un convincimento profondo sulla sua esistenza come realtà clinica autonoma. Da disturbo residuo (DSM III) senza criteri diagnostici propri, è diventato nel DSM III-R un Disturbo Mentale con propri criteri diagnostici ma all’interno del gruppo dei Disturbi Psicotici non classificati altrove. Ed ancora dai ricercatori viene continuamente suddivisa in sottocategorie sulla base di criteri biologici, clinici e sindromici, ed entra all’interno di uno spazio nosografico-psicopatologico definito dal concetto di “spettro”, bipolare.
Il concetto di “spettro” nell’essenza appare essere la disconferma di quello di “categoria” e sostituisce alla metodologia diagnostica incentrata sulla “dicotomia” quella del “passaggio con discontinuità” all’interno di un continuum di sviluppo.
Sia che si accetti il modello interpretativo “dicotomico” o quello “per passaggi discreti”, diventa inevitabile che vengano individuati luoghi di passaggio, che esistono in quanto tali ed in quanto tali (intermedi) si definiscono.
E’ questo a parer nostro il concetto di “area intermedia” che abbiamo voluto applicare all’area della schizoaffettività; la sua concettualizzazione rappresenta il motore della ricerca e della pratica terapeutica nel campo della psicosi.
Non è grandemente confutabile che una medesima realtà clinica venga diversamente denominata e collocata sulla base di differenti modelli interpretativi del Disturbo Mentale.
Depressione e Schizofrenia sono congiunti da innumerevoli ponti e talora “vedere” sintomi depressivi e/o schizofrenici nello stesso soggetto può significare descrivere diversamente una stessa realtà clinica: il “sintomo depressivo” si colloca sullo sfondo della “schizofrenia che guarisce”, il “sintomo schizofrenico” sullo sfondo di una malattia a decorso cronico e tendenzialmente deteriorante.
Il modello interpretativo dominante è sicuramente quello che si basa sul concetto di “guarigione”, intesa nell’accezione medico-positivistica che prevede il superamento dello stato di malattia clinica senza esiti o con danni a carico della funzione.
Su queste basi si concettualizzano entità nosografiche definite (con specifici contenuti psicopatologici) di salute psichica, di disturbi di personalità, di nevrosi e di psicosi. Ma nello stesso tempo compaiono nel nostro universo osservativo casi. situazioni o condizioni che si discostano da quelli osservati (atipici): potremmo negarli o come frutto di un errore o imperfezione, rifonderli nei poli già definiti oppure collocarli come una nuova realtà clinico-psicopatologica (terza psicosi), od ancora riconoscerli come “momenti fuggenti” e mai definiti all’interno di un unico disturbo psichiatrico in continua evoluzione.
Si vengono così a contrapporre, pendolarmente, i due classici modelli del disturbo mentale, quello della psicosi unica, indifferenziata e quello delle poli-psicosi, estremamente differenziate, estremizzazione del modello binario/dicotomico.
Riusciamo ad accettare (in quanto operativamente fruibile e quindi empiricamente condivisibile) di lavorare all’interno di un modello teorico che oscilla continuamente fra i poli della unicità/unitarietà e della molteplicità/frammentarietà, continuamente pulsatile in tante posizioni intermedie che strutturalmente esistono per un tempo sufficiente ad essere comprese e conosciute e destinate ad essere sostituite da altre che non le negano in quanto le contengono pur diversificandosi; la loro continuità e la loro individualità esiste unicamente in virtù del rapporto reciproco all’interno del sistema di riferimento.
L’esistenza quindi di ‘aree intermedie”, comprensive dei concetti di atipico, borderline, di passaggio, è in diretta relazione ai modelli interpretativi di riferimento; la loro denominazione varierà nel tempo restando inalterata la loro funzione empirica ed operativa.
Aree intermedie sono quindi una necessità conoscitiva ed una esigenza operativa in quanto in detto spazio e tempo si raccolgono le potenzialità di un lavoro teso a ricostruire o costruire la reale immagine del Sé, meta-concetto di salute psichica o mentale.
La schizoaffettività è da noi vista non come una definita entità nosografica autonoma ma come uno spazio ed un luogo (posizione) entro cui si raccoglie l’universo della Psicosi (psicosi maniaco-depressiva e schizofrenia), vista in maniera diacronica (sequential schizoaffective disorder o schizoaffective disorder type I) e sincronica (concurrent schizoaffective disorder o schizoaffective disorder type II) od anche nelle sue valenze fenomeniche di vissuti inibiti (schizodepressivi) o eccitati (schizomaniacali) o misti (schizobipolari) a loro volta collegati alle aspettative di buona (schizomaniacali e schizobipolari) o cattiva (schizodepressivi) prognosi e di “curabilità” della psicosi.
E dal concetto di “schizodepressivo” si sfuma a quello di “Schizofrenia distimica”, di “Schizofrenia con sintomi negativi (tipo II di Crow), di “Schizofrenia residua” ai quadri schizofrenici a decorso episodico e complicato da depressioni “acinetiche” o “post-psicotiche”, tutte condizioni cliniche caratterizzate da cattiva prognosi e/o difficoltà nel trattamento; da quello di “schizomaniacale” al Disturbo Affettivo con deliri congrui, a buona prognosi, contrapposto al Disturbo Affettivo accompagnato da deliri e/o allucinazioni “mood incongruent” a prognosi più incerta e con spiccate difficoltà di trattamento.
Il termine “schizoaffettivo”, fortunato, nasce con Kasanin negli anni trenta, ma era già inserito nei metaconcetti, uno arcaico ed archetipico e l’altro attuale, di Psicosi Unica (Griesinger) e di Doppia Psicosi (Kraèpelin); le forme miste, atipiche o marginali venivano di fatto da entrambe le concezioni negate e sacrificate ai concetti metafisici, di indifferenziato (psicosi allo stato nascente) od empirico-operazionali di “quello che è o non può essere”, risolvendo il problema delle discordanze all’interno del classico principio del livello gerarchico jaspersiano, di volta in volta centrato sulla schizofrenia o sulla depressione.
Il fallimento del criterio operativo diagnostico di Kraepelin (esito) non può essere ritenuto l’unico fattore determinante il nascere del concetto di schizoaffettività, come sembra forse sostenere Vaillant nell’affermare che all’interno del termine linguistico di schizoaffettività c’è fondamentalmente il desiderio e la necessità per gli psichiatri di “ribattezzare gli schizofrenici guariti” E’ in parte vero, ma solo in un particolare stato evolutivo; se così fosse, nel tempo si dovrebbe assistere ad una progressiva riduzione; al contrario l’area si espande progressiva. mente sul piano numerico e culturale.
Il significato reale del termine travalica la necessità nosografica e nosologica comprendendo il più ampio bisogno di comprensione psicopatologica del disturbo mentale.
Gli studi e la ricerca più recente sembrano puntualizzare: “i disordini schizoaffettivi rappresentano un gruppo eterogeneo di condizioni morbose” e non “esistono evidenze empiriche che provino l’esistenza di solo due psicosi, di una terza psicosi, di un’unica psicosi ad espressività fenomenica diversa e polimorfa come ipotizzato dai modelli teorici interpretativi”.
Cercando di reinterpretare il percorso dal DSM III al DSM III-R: da categoria residua la Schizoaffettività ha riassunto una sua dignità autonoma, nettamente separata sia dai Disturbi Affettivi che da quelli Schizofrenici, comprendendoli entrambi senza identificarvisi. E’ nostro convincimento che il DSM III-R l’abbia concepita come “area intermedia” ed operativamente proposta come tale.
La Schizoaffettività non rappresenta l’unica area intermedia della nosografia psichiatrica: è solo quella più nettamente individuata. Altre “aree intermedie” si affacciano sul palcoscenico della ricerca psichiatrica, nel dare corpo allo spettro d’ansia e a quello depressivo attraverso la concettualizzazione dello spazio “ansia/depressione” ed “ansia/angoscia”.
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