La terapia in psichiatria: fra farmacoterapia e psicoterapia


Marcello Nardini, Norvegia Belardinelli, Immacolata d’Errico

Atti del IV Congresso Internazionale “Psicoterapia della Gestalt – per una scienza dell’esperienza” – a cura di Riccardo Zerbetto.
Siena luglio 1991. Edizioni Centro Studi Psicosomatica

Il titolo ci rimanda ad un interrogativo a cui cercheremo di dare una risposta: lo (psico)farmaco in termini neuroscientistici definibile come sostanza interagente con i neuromediatori e quindi esso stesso mediatore di processi biologici entra a pieno diritto nella terapia dei disturbi mentali, al di là delle sottospecificazioni operative di psico (farmaco)terapia e di psicoterapia tout court.

Questa posizione è ardita e si contrappone ad una diffusa credenza e convinzione: quella che vede l’uso dello (psico)farmaco come elemento sporco della terapia, il male minore, tollerato e sopportato, talora nascosto, espulso di fatto dal processo della terapia dei disturbi mentali.

All’interno di questa concettualizzazione la terapia in psichiatria si colloca stabilmente in un area intermedia come elemento fluttuante tra le due posizione estreme di (farmaco) e di (psico)terapia, senza avere mai la possibilità di una propria identità definita e certa, di essere in altre parole un fattore terapeutico specifico.

Riteniamo che una fusione (dinamica e dialettica) di queste due posizioni vada pensata: l’esistenza di una area intermedia non può essere pensata come eterna e stabile: la concettualizzazione di una area intermedia di pensiero e di prassi diventa fattore terapeutico unicamente se prevista come transitoria e non stabile.

Intendiamo per processo terapeutico quell’insieme di atti e strumenti tesi, e capaci, ad indurre il cambiamento verso il raggiungimento dell’identità/autonomia. L’attuazione del cambiamento/trasformazione comporta generalmente la scomparsa della sofferenza psichica, ma questa non è la regola: il lenire la sofferenza (e quindi la sua scomparsa) non significa sempre cambiamento avvenuto, può significare assenza di cambiamento. La trasformazione della sofferenza psichica in “tensione a”, visione di possibilità di cambiamento, trasformazione, significa essere, ed essere stati, terapeutici.

Il farmaco, attualmente, non è più il sedativo o lo stimolante; è lo strumento di un rimodellamento della comunicazione interneuronica e quindi del funzionamento neuro-comportamentale. Recentemente a questo proposito alcuni autori (Beitman e Mooney, 1991) hanno ipotizzato un meccanismo comune di azione del farmaco sulle cellule neuronali (farmacoterapie) che può essere il corrispettivo, sul piano neurofisiologico della desensibilizzazione sistematica a livello comportamentale (psicoterapia).

Il disturbo psichiatrico (malattia mentale) al di là delle sue connotazioni semeiologiche (la sindrome) è descrivibile come una distorsione della comunicazione umana, emotivo/psicologica e somatica, nell’uomo e fra gli uomini: il suo corrispettivo psicopatologico è la scissione mente/corpo: quello comportamentale interumano è l’allontanamento/isolamento (autistico). Il disturbo psichiatrico è ancora definibile dall’esistenza di una dipendenza, stabile e persistente.

Alla stabilità va sostituita la prospettiva dell’acquisizione dell’indipendenza attraverso la separazione: il processo di separazione/indipendenza necessita dell’esistenza di uno stato di dipendenza: la dipendenza per essere fattore terapeutico necessita dell’attributo della momentaneità e transitorietà. Alla dipendenza va sempre connessa l’astinenza.

La persistenza è alla base della cronicità, della negazione della possibilità di cura e guarigione. La persistenza è connessa alla dipendenza. la dipendenza è malattia: l’astinenza (crisi) è la possibilità di cura (terapia).

Il farmaco è un potente fattore terapeutico, altamente induttore di dipendenza, ma non così potente e distruttivo da non permettere la separazione/indipendenza. Il farmaco non nega a priori la possibilità di separazione: non separa e rescinde (il somatico dallo psichico), ma crea le condizioni per cui possa avvenire l’acquisizione dell’identità personale: pone, per la sua stessa natura, l’assoluta necessità di operare una separazione. Lo psicofarmaco -in quanto tale- non è mai completamente sostitutivo, non compensa mai totalmente una mancanza/carenza, ma contribuisce a correggere e il trigger per una restituzione di una funzionalità una disfunzione complessa neuro/endocrina/comportamentale interpretata nei termini di interconnessioni neurali (Changeaux,1990-1991).

La somministrazione prolungata, al di là delle necessità del processo terapeutico, induce la trasformazione del complesso neuro (endocrino) comportamentale in quadri talora oppositivi e/o diversamente disfunzionali.

Ad esempio, in neurologia la somministrazione prolungata di L-DOPA in corso di Morbo di Parkinson induce la comparsa di una nuova sindrome clinica e neurotrasmettitoriale, fenomeno on-off, movimenti coreici e talora di tipo tourrettiano. Oppure la somministrazione cronica di antidepressivi triciclici nei disturbi affettivi dello spettro bipolare induce un riavvicinamento dei cicli maniacali e depressivi con modificazioni, anche stabili, della psicopatologia dei disturbi bipolari (rapida ciclicità).

Alla nostra concettualizzazione in tema di farmacoterapia, vi è sottesa una analoga concettualizzazione in termini di psicoterapia.

In psichiatria siamo terapeutici nel costringere inizialmente il paziente alla cura (anche ai farmaci); successivamente siamo terapeutici se costringiamo il paziente a separarsi dalla cura (anche dai farmaci).

L’accettazione di una terapia cronica (protratta, prolungata, preventiva) deve derivare dalla consapevolezza, acquisita, della guaribilità parziale della malattia mentale (acquisizione della consapevolezza del limite soggettivo ed oggettivo, passaggio dal concetto di terapia come guarigione a quello di terapia come cura: superamento della posizione onnipotente/narcisistica: formazione del terapeuta alla terapia).

L’accettazione di una terapia che si sviluppa nel tempo non ha il significato dell’accettazione della cronicità, nel senso di incurabilità, immutabilità.

Queste brevi premesse e sembrano fondamentali per superare la pericolosa dicotoma, oppositiva, tra farmacoterapia e psicoterapia. Pensare unicamente secondo il modello dicotomico, senza ipotizzare di operarne nella pratica una trasformazione (l’armonia dei contrari) è a parer nostro fattore antiterapeutico.

Essere terapeutici significa poter pensare l’unitarietà sostituendo nella nostra mente ed in quella degli altri (pazienti) la scissione e la separatezza. La psicoterapia è la terapia della mente e delle sue distorsioni con la parola interagendo con la componente psicologica. La farmacoterapia è la terapia della mente e delle sue distorsioni con i farmaci, interagendo con la componente somatica. Entrambe, psicoterapia e farmacoterapia, esistono ed agiscono nella relazione medico-paziente. La relazione diventa elemento costitutivo della terapia e del processo terapeutico.

Nella relazione un uomo (il terapeuta) diventa il terapeuta di un altro uomo (il paziente); nella relazione terapeutica si attualizza l’unità e l’identità. Parola e farmaco diventano strumenti e fanno parte della tecnica, che è fattore terapeutico fondamentale ma non unico. Parola e farmaco diventano gli strumenti di terapia entrando chiari nello spazio della terapia e fluttuando sui vari piani di evidenza. La terapia. in psichiatria, diventa il prodotto del processo individuale ed interumano teso alla fusione di elementi oppositivi (contrari). Abbiamo voluto fornire la cornice entro la quale andrà collocato il nostro discorso: la cornice dà limite ad una immagine ma nello stesso tempo la definisce nello spazio e nel tempo in quanto immagine reale (nella sua dimensionalità).

Il problema che stiamo affrontando ha due aspetti:

  • l’intervento del farmaco in un contesto (strutturato) psicoterapico;
  • l’intervento dello strumento psicoterapico in un contesto (strutturato) farmacoterapico.

Nel nostro dire è partendo dalla prima dimensione e passando attraverso la seconda che possiamo arrivare a delineare la prospettiva di un intervento globale, armonico, che superi la frammentarietà, definendone nello stesso tempo i contesti ed i setting specifici.

La legittimità, l’opportunità e l’efficacia dell’intervento farmacologico nel contesto psicoterapico non può prescindere dalla peculiarità della relazione terapeutica, dai modelli teorici all’interno dei quali stiamo operando, dall’azione e significato degli strumenti operativi.

Proponiamo alcuni interrogativi per darne una risposta:

Che cosa intendiamo per processo psicoterapico?

Che cosa definisce una prassi come psicoterapia?

Quale è l’elemento o gli elementi comuni a tutte le prassi psicoterapeutiche perché possano essere definite tali?

Come riporta dettagliatamente Beitman (1991), elemento comune alle prassi psicoterapeutiche è lo svolgersi del processo terapeutico attraverso varie fasi che vanno, dal momento dell’incontro, fino alla separazione, evento che presuppone la messa a punto ed in atto di nuovi modelli comportamentali con l’abbandono dei vecchi.

È proprio questo percorso che come evento finale porta al cambiamento attraverso la presa di coscienza ed al suo consolidamento, che definisce il processo psicoterapeutico.

Tutto ciò avviene, attraverso fasi definite:

  1. contratto;
  2. ricerca delle aree problematiche e modelli comportamentali relativi;
  3. cambiamento dei precedenti modelli con la messa a punto, sperimentazione e consolidamento dei nuovi;
  4. termine mediante separazione.

Nel contesto delle diverse psicoterapie molti autori oggi identificano nella relazione terapeutica e nella strutturazione della modalità di intervento e nelle sue regole (setting) due, ma non i soli, dei possibili fattori terapeutici.

Questo è altrettanto vero per la farmacoterapia psichiatrica da considerarsi prassi terapeutica psichiatrica.    

Elementi in comune sono la relazione terapeutica nella fase di contratto e di definizione dei campi di intervento: la definizione di un progetto terapeutico teso al cambiamento psicocomportamentale e alla separazione (sospensione del contratto). Elementi differenzianti sono le regole e le tecniche.

Psicoterapia e farmacoterapia hanno quindi fattori terapeutici in comune. Le due prassi non sono omologabili, ma neppure – in quanto tali – separabili per frattura.

L’uso, nella seconda, dello strumento farmaco non può costituirne la specificità caratterizzante. Il farmaco è un oggetto parziale; assume il significato di oggetto globale nella relazione e nel progetto terapeutico; l’uso del farmaco non può prescindere, infatti, da chi lo assume, da chi lo prescrive e dalle relative intenzionalità di terapia. In questa ottica, la farmacoterapia diventa anche farmacopsicoterapia.

Etimologicamente il termine farmaco sta ad indicare sia la medicina che il veleno, il che esprime pienamente la sua dimensione di oggetto ambivalente e ambiguo, oltre che parziale.

Il farmaco come medicina/veleno ha valenze arcaiche che non reggono alle prove della recente ricerca clinica. É nato quando non vi era distinzione fra sostanza medicamentosa e sostanza velenosa; le due posizioni: medicina e veleno venivano raccolte nella stessa sostanza.

Tuttavia questo significato, arcaico e sotteso. entra sempre nella relazione medico-paziente, quando l’oggetto della terapia è la distorsione della comunicazione umana, cioè il disturbo mentale.

Entra e se non elaborato, distorcerà il progetto terapeutico.

Al farmaco competono almeno tre azioni: 1) l’azione specifica sia in termini di efficacia terapeutica che di effetti indesiderati collaterali; 2) l’effetto placebo; 3) un’azione psicodinamica invariabilmente presente, condizionata e dalle aspettative e dalle dimensioni psicologiche del medico e del paziente.

La prescrizione del farmaco è un momento di interazione medico-paziente e come tale, va letto ed utilizzato.

I ruoli che derivano dalle azioni elencate sono altamente interreagenti, nessuna di queste da sola è in grado di giustificare il complesso funzionamento del farmaco e della sua variabilità di risposta interindividuale.

Il farmaco deriva questa complessità, in parte, sul piano psicodinamico, dall’assumere in un determinato momento e contesto un ben preciso significato per il paziente che lo sperimenta; significato che può essere utilizzato per contribuire, alla stregua di altri mezzi, all’evolvere del processo terapeutico attraverso le varie fasi. All’interno di queste dimensioni   il farmaco potrà essere interpretato di volta in volta, e talora contemporaneamente, come mediatore, come sostituto o come rifiuto della relazione o del rapporto.

La psicofarmacoterapia e la psicoterapia sono due contesti entrambi finalizzati al cambiamento e dove l’uso del farmaco è coerente ai relativi modelli teorici, diversi ed indipendenti: ma esiste anche una ulteriore possibilità: quella che superando l’onnipresente (ed onnipotente) conflitto fra biologico e psicologico, cerca di integrare nella coerenza di una prassi i modelli teorici sottesi, considerando l’uomo nella sua globalità somatopsichica. Questo richiede l’elaborazione di un nuovo modello che tenga conto delle molteplici sfaccettature del disturbo psichiatrico e delle conseguenti diverse possibili modalità di approccio e di trasformazione.

Si apre così la strada alle tendenze attuali di integrare le diverse psicoterapie e di integrare le stesse con la farmacoterapia.

I limiti dei singoli modelli teorici si sono rivelati in primo luogo nella pratica, portando inizialmente ad una combinazione delle diverse prassi operative e successivamente ad un tentativo di integrazione teorica.

Ci piace pensare come l’interazione reciproca possa avvenire attraverso percorsi neurofisiologici comuni, basi di livelli funzionali sempre più complessi e nella cui complessità il farmaco o la parola possano agire mediante un effetto agonista o antagonista. favorendo od ostacolando una positiva interazione.

Come può avvenire ciò?

Questo interrogativo ci porta ad una disquisizione che esula forse dal tema di questa relazione: la ricerca di un meccanismo d’azione comune per configurazioni chimiche e configurazioni di parole, espressioni, emozioni, che modifichino però livelli funzionali diversi. Configurazioni sottese nelle loro specificità alla vita mentale e al comportamento umano.

I diversi approcci terapeutici, psicoterapici e non, derivano (al di là delle ideologie relative ai modelli di malattia mentale che hanno condizionato i diversi modelli teorici di funzionamento cerebrale e quindi di prassi operativa) dalla scelta di una di queste vie, quella più congeniale o accessibile al terapeuta e al paziente. In questa fase paziente e terapeuta generalmente si scelgono all’interno di una relazione di complicità reciproca. Da questa via muove e inizia il processo che porterà o favorirà una riorganizzazione funzionale dei circuiti con la dismissione di vecchie strade e la costruzione di nuovi, più percorribili e meno impervi percorsi di funzionamento chimico e comportamentale. La soluzione della complicità rappresenta l’indicatore che il processo terapeutico è avvenuto e si è concluso.

Quanto detto esprime la necessita di ogni operatore di muoversi all’interno di un modello teorico, per poter coerentemente operare. E, nell’essenza, un rifiuto ad un comportamento agito in risposta unicamente alla domanda di volta in volta emergente, non percependo direttamente ed immediatamente i bisogni sottesi.

Il tenere distinte e separate due prassi di terapia psichiatrica, quella psicoterapica e quella farmacoterapica appunto, è una necessita operativa, atta a coprire una incapacità attuale della mente dell’uomo, quella della non pensabilità della magnifica armonia dei contrari, espressione dell’unitarietà dell’uomo e della condizione umana. Nella nostra mente e nella mente del paziente dobbiamo creare uno spazio (area) non ancora definita ma definibile, in cui farmaco e psicoterapia agiscono il loro potere terapeutico, nei duplici aspetti di riparazione (farmaco soprattutto) e ricostruzione (parola soprattutto).

Alcune considerazioni conclusive

Abbiamo cercato di fornire una base per uno sviluppo teorico che non veda le due pratiche terapeutiche in psichiatria, quella farmacoterapica e quella psicoterapica, in posizione antitetica ed oppositiva, ma integrate in un progetto di intervento che risulti realmente terapeutico.

L’obiettivo si può raggiungere attraverso la definizione di protocolli di intervento articolati, che prendano in considerazione, sincronica e diacronica, i vari aspetti fenomenici del disturbo mentale, variamente interconnessi nella loro complessità.

Tuttavia riteniamo questo non del tutto soddisfacente; l’esigenza è ancora quella di trovare una lettura epistemologica della clinica psichiatrica, che ci permetta di superare la frammentarietà di intervento e di terapia che caratterizza tuttora la psichiatria rispetto alle altre branche della medicina clinica.

Non esistendo ancora una teoria condivisa ed unitaria sulla genesi del disturbo mentale, sempre oscillante tra la biologia somatica ed organicistica e la psicologia umanistica e la sociopsicologia, fra le interpretazioni deficitarie (generalmente biologiche) e quelle produttive (quelle psicologiche in genere), la psichiatria e lo psichiatra si trovano ad agire in un dilemma a cui, per essere terapeutici, sono costretti a trovare una soluzione all’interno di una teoria del disturbo mentale che prevede l’unità mente-corpo.

La mente non può essere pensata al di fuori del corpo, il corpo vivo e vivente non è pensabile in assenza della mente.

È una affermazione. forse ovvia e tautologica, che merita tuttavia di essere ancora riproposta. Corpo e mente sono, nel nostro pensiero, entità di conoscenza che si definiscono reciprocamente, e come tali vanno lette ed accolte nel lessico scientifico.

Riteniamo che i rapporti operativi. e quindi teorici, fra farmacoterapia e psicoterapia all’interno del progetto di terapia psichiatrica vadano collocati all’interno di questi riferimenti.

Non è questa la sede per affrontare i problemi connessi alle varie teorie psicologiche che stanno dietro alle pratiche psicoterapeutiche e che per problemi di coerenza interna si potrebbero opporre alla integrazione farmacoterapia-psicoterapia: a nostro avviso, è importante trovare una coerenza nell’atto terapeutico psichiatrico in funzione delle teorie di riferimento, ma cercando di andare oltre (spazio della ricerca). Farmacoterapia e psicoterapia devono essere funzionali, reciprocamente. alla terapia intesa anche come cambiamento (legato alle strutture e ai modelli) e non solo come variazione (legata ai sintomi).

Un dato emerge chiaro dalla letteratura scientifica: le due pratiche si potenziano a vicenda: ciò, a nostro parere, è indicativo di una potenza terapeutica di entrambe, non totale ovviamente.

Difficile (allo stato attuale delle conoscenze è impossibile) è poter arrivare a proporre meccanismi esplicativi di questa osservazione.

Possiamo tentare di proporre qualche opinione rifacendoci all’ottica conoscitiva di tipo cognitivo: al momento dell’interazione terapia-farmaco-medico-paziente si determinerebbe una influenza sugli schemi cognitivi del paziente con conseguenti variazioni della condizione emotiva e quindi interazioni con lo stato dinamico dei processi biologici. Paziente e terapeuta al momento dell’atto prescrittivo e della somministrazione ed assunzione dello psicofarmaco (ma non solo di quello, in questo interno va collocato anche il placebo) creerebbero una loro personale teoria con formulazione di una previsione di cambiamento dello stato psicofisico (e mentale) del paziente (Rosenthal e Frank. 1956).

Questa nuova teoria (teoria condivisa dalla coppia terapeutica e/o dal gruppo di riferimento) che si creerebbe al momento del primo incontro e che si modificherebbe nei successivi incontri, si verrebbe a strutturare sula base della tipologia della relazione terapeutica (calda, empatica, direttiva, accogliente, ecc), di condizioni situazionali (ambiente, famiglia, società, cultura, tradizioni. ecc). e di strutture cognitivo-emozionali, motivazionali ed istintuali del paziente (psicopatologia) e del terapeuta (formazione + stile personale). Il farmaco entrerebbe nella sua costruzione attivamente, attraverso le variazioni dell’asseto psicofisiologico. sempre riletto secondo specifiche modalità e sulla base di aspettative in gran parte, correlate alla psicopatologia del quadro psichiatrico.

Si aprono i seguenti problemi:

  1. quando integrare farmacoterapia e psicoterapia: non esiste un tempo;
  2. dove integrare i due approcci: non esiste un luogo;
  3. in che condizione clinica (acuzia, fase di stato, cronicità, quiescenza): non esiste una condizione clinica (spazio).

Esiste un unico tempo. un unico luogo. un unico spazio: quello della terapia, della strategia tesa al cambiamento.

Il tutto comincia al primo incontro e contatto e si sviluppa nel tempo fino a quando terapeuta e paziente, cambiati (e modificata la loro teoria), decidono di separarsi, anche nella prospettiva, possibile, di un nuovo incontro.

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