Pasqua, Paschetta e Pascone

Era una storia che mio nonno raccontava. In fondo la verità della storia usciva fuori dal tentativo di nasconderla. Se ne parlava in bassa voce. Detto e non detto. E questo sussurrio era indice di verità?

La storia narra della tradizione del giorno dopo Pasqua di recarsi sulle sponde del fiume Sarno a festeggiare. Ci si portava di tutto: salumi, soppressate, capicollo, provoloni, ricotta, la pastiera (quella di pasta) e pizz’ ‘e grano. E si suonava e si ballava. Si ballavano le Tammurriate con chitarre, calascioni e ‘locuzioni; tamburri e tamburrelli; nacchere e triccaballachi. E si beveva, e si beveva: quanto si beveva.


L’agro sarnese-nocerino, è abitato da popolazioni, benché apparentate, e vicine di vicinato, spesso intente in dispute verbali. Ogni popolazione aveva, forse ancora ha, una propria identità, segnata da accentazioni dialettali diverse. Si tratta di sfumature, forse di accentazioni ma che ne garantiscono la propria identità culturale. Per fare un esempio: il marzanese accenta sulle V e sulle B, il angrarese sulla S e sulla F, e così via. Così viene riscattata l’identità storica e cultura del paganese che si differenzia non solo dal nocerino ma anche dai cicalesi. Lo stesso vale per i sarnesi e quelli di Episcopio. Quelli di Striano, poi, un altro mondo, un’altra cultura.

Ma la storia delle popolazioni li ha apparentati anche con l’ingresso, soprattutto negli ultimi decessi di popolazioni esterne all’agro. Negli ultimi anni l’emigrazione araba sta modificando definitivamente quest’andamento.  Tutta una famiglia, quindi, ma con identità diverse. Come una famiglia.

Era tradizione, dicevo, che il giorno dopo la Pasqua le popolazioni locali, quelli di “‘e rint’” (i Signuri) e “fore e vasole” (i Contadini), si portassero sulle rive del fiume Sarno a festeggiare. Le popolazioni marzanesi (di San Marzano Sul Sarno) e valentinesi (di San Valentino Torio), vuoi per parentele, vuoi per comodità e vicinanza si trovavano a godere dei privilegi delle stesse sponde del fiume Sarno. A volte si spingevano verso la località di Longola, abitata fin dalla preistoria su capanne appoggiate su palafitte.

E si ballava e si suonava, si mangiava e si beveva. E qualcuno si buttava anche nell’acqua gelida del Sarno. Ma non per purificarsi. E si ballavano le tammurriate con le quali si poteva cantare “‘a dispietto”.  Era una improvvisazione, si inventava il canto sul momento. Era l’occasione per corteggiare le donne, anche di altri, e gli uomini, anche di altre. Si cantavano i pettegolezzi, si provocava e si beveva. Si beveva, si cantava e si beveva. Le tammurriate dell’agro-sarnese nocerino si spingono maggiormente verso un contenuto di corteggiamento e di allusioni erotiche. A queste si associa un ballo caratterizzato da movimenti sensuali e spesso provocatori. Anche in questo caso le tammurriate hanno un linguaggio identificativo della cultura di appartenenza. Le tammurriate per tradizione si rivolgono al culto delle sette Vergini Maria. Sono rivolte alla “Mamma Schiavone” di Montevergine (Mercogliano nell’avellinese), alla Madonna delle Galline a Pagani, alla Madonna a Castiello (Somma Vesuiana), alla Madonna di Materdomini (Nocera Superiore), alla Maronna de’ Vagni (località Bagni a Scafati), alla Madonna della Neve a Torre Annunziata e alla Madonna dell’Avvocata di Cava dei Tirreni. Esistono anche altre Madonne a cui sono dedicate i canti della popolazione, così come la Madonna dell’Arco, ma la tradizione lega le tammurriate alle sette vergini.

Ma i festeggiamenti con balli, tammurriate e vino e tanto risentimento, portano dal Sacro al Profano.

I marzanesi e i valentinesi non erano da meno. Legati da vincoli di sangue, ma lontani, vicini per distanza ma distanti. Tra cose dette e non dette, tra allusioni e ammiccamenti, tra lazzi e sberleffi, prese in giro, con l’onore disonorato, con il vino che saliva sempre di più, le mani salivano sempre dipiù. Il gioco era fatto. Bevi qua, bevi là, spingi qui, spingi là. E le urla accompagnatrici ma non mitiganti, sempre più vicine, tra mazziatoni e paliatoni qualche lama sembra spuntava.

E ogni anno era la stessa storia. Si iniziarono anche a limitare i territori. “Questa riva appartiene a me” e “là non ci devi venire”. Ogni anno la stessa storia.

Il Prefetto non potendo più tollerare queste vicende doveva trovare una soluzione. Ma come fare? Il lunedì dopo Pasqua è uno solo. Non lo si può dividere. Convocò, quindi le Pubbliche Autorità cittadine chiedendo loro di trovare una soluzione. Fasciati con la fascia tricolore, i Sindaci, le Guardie e i signuri  esposero le loro idee proponendo soluzioni troppo di parte, spesso audaci. E parlavano, parlavano, quanto parlavano. Più parlavano più i toni si alzavano e le distanze aumentavano. Nessuno di loro voleva “scumparire” di fronte alla propria popolazione. Non si trovò la soluzione.

Allor Signori non vi siete messi d’accordo? Mo’, m’ho beco io!” Sentenziò il Prefetto!

Fece una bella e sentita relazione: Con decreto regio sentenziò:

Il lunedì ai valentinesi; il martedì ai marzanesi

I marzanesi dovettero rassegnarsi a cotanta sentenza. Dovevano accontentarsi del martedì per festeggiare. Non potevano fare Paquetta ma decisero di fare una cosa ancora più bella e grande per il martedì del giorno dopo. Dovevano far “schiattare di invidia” i vicini imparentati.  Nacque così una cosa più grande di Pasquetta: il “Pasqone”.

Era la soluzione definitiva. I valentinesi avevano Pasquetta, i marzanesi ‘o Pasqone.

La storia finisce qui. Come in tutti i racconti narrati risente della rievocazione dei ricordi. Si carica di notizie non verificabili, di eventi ascoltati e a loro volta modificati. Le emozioni, le necessità, i pudori e le paure ne modificano il percorso. Ne rimane, però, l’essenza.

Cosa rimane oggi del Pasqone? Solo il ricordo? C’è ancora qualcuno che lo festeggia. Ancora oggi si vedono ragazzi che si recano a festeggiarlo. Sempre meno, sempre di meno. Ma lo spirito del Pasqone si intrufola nelle nostre memorie. Ne esalta il ricordo di eventi passati che sono, comunque, accaduti. Racconta di persone che ci sono state.

Racconta di persone che hanno sudato, lavorato la terra, spossate, arse e seccate dal sole e dalla fatica. Racconta di persone amate e perdute. Persone che non sono andate via ma che hanno cantato, amato, ballato, sofferto e combattuto per le generazioni future.

Ci saranno certamente notizie attendibili e fonti storiche certe o da approfondire. Questa è solo la storia che mio nonno raccontava.

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