Psichiatria malata
- Marcello Nardini
- Marcello Nardini
- Dicembre 12, 1992
Per una nuova assistenza psichiatrica in Italia: esperienze e tesi a confronto
Marcello Nardini
Titolare Cattedra di Psichiatria, Università degli Studi di Siena
Atti del convegno. Firenze-Palazzo Vecchio. 12 dicembre 1992
DI.A.PSI.GRA. – Difesa Ammalati Psichici Gravi – Comitato Regionale Toscano
L’esperienza senese fra passato e futuro
il racconto di uno psichiatra in Siena
Da quando mi è stato proposto di partecipare a questo convegno ho cercato nella mia mente di dare un significato a questa occasione di incontro. Non sono riuscito ad arrivare ad un punto conclusivo: si sono presentati innumerevoli significati, nessuno mi è sembrato del tutto esaustivo, veniva sempre sostituito; non sempre il nuovo significato era alternativo al precedente, più spesso lo completava portando un nuovo, seppur piccolo, contributo alla comprensione globale del fenomeno che ci si propone e che ci viene proposto.
Non è questa una esperienza nuova in psichiatria, ove soggettivo ed obbiettivo sono costantemente in rapporto dialettico e dinamico tesi a definire una realtà che non potrà mai essere statica, eterna e persistente oltre il limite umano del tempo. La realtà in psichiatria – nella sua esistenza – non potrà mai essere fotografata e tramandata per la conoscenza in una istantanea; l’istante della fotografia ha il significato di un momento ed il senso di una parte della esistenza passata e futura. Quell’istantanea riprende vita, senso e significato se recuperata al rapporto, al nuovo divenire, al continuo confronto fra il soggettivo e l’oggettivo.
Sta probabilmente entro questa cornice di riferimento la specificità della psichiatria, dello psichiatra, della prassi psichiatrica; in questo si differenzia dalla medicina somatica: in questa la realtà può essere definita staticamente (e a partire da questa definizione, si può coerentemente agire) ed assumere in questo atto un senso compiuto; nella medicina della mente (la psichiatria) questa operazione è impossibile ed improponibile, pena la perdita della coerenza e dell’adeguatezza dell’agire.
Nella conoscenza in medicina somatica, l’oggettivo è la verifica del soggettivo e nell’oggettività si perde il significato (autonomo) della soggettività; nella conoscenza in medicina della mente (la psichiatria) oggettivo e soggettivo si fondono e separano continuamente; oggettività e soggettività si con-tengono reciprocamente, entrambi hanno il significato dell’essere. Lo psichiatra per essere terapeutico deve rinunciare ad avere una base sicura e stabile (il dato oggettivo e costantemente esterno da sé e dal rapporto), per acquisire il senso del suo essere ed agire all’interno del tempo e dello spazio del rapporto (inter umano).
Lo psichiatra deve essere formato oltre che informato!
Soggettivo ed oggettivo non si definiscono quindi di per sé in esistenze isolate ed autonome; sono i due aspetti (poli) del rapporto interumano. Sono la cornice (frame) della conoscenza e dell’agire in medicina della mente (la psichiatria).
Sull’onda di questi pensieri e considerazioni ho rinunciato alla ricerca a priori del significato (oggettivo) di questo incontro; ho recuperato il senso conoscitivo del soggettivo (esperienziale) e come tale lo propongo. Lo sviluppo della conoscenza avverrà all’interno dell’incontro di oggi: oggettività e soggettività – oggi si incontreranno nelle parole e negli atti dell’incontro e ne nasceranno sicuramente acquisizioni nuove.
La malattia psichiatrica prende oggi la parola ed attraverso la parola propone la sua immagine: lo fa attraverso la voce delle famiglie, degli psichiatri e delle istituzioni di cura e dei loro rappresentanti (i manicomi, i servizi psichiatrici, i dipartimenti di salute mentale, le strutture amministrative). Ma non è presente, è là nei luoghi di cura, nei luoghi della follia. La malattia mentale ha una voce ed una parola; dal privato si propone al pubblico. Ma, il malato di mente, il soggetto e l’uomo, è ancora là nei suoi specifici luoghi di cura e nei suoi specifici luoghi di contenzione; non ha ancora una sua voce ed una sua parola; è come muto, senza parola, senza pensieri. Noi, tutti, siamo la sua voce ed il suo pensiero; il malato di mente è chiuso ancora nei suoi specifici luoghi di cura, ha la parola dei suoi deliri, vede attraverso le sue allucinazioni (visioni). La nostra mente è la sua mente, la nostra parola è la sua parola, la nostra vista è la sua vista: ne dobbiamo avere la consapevolezza.
Questo potrebbe essere il senso della “Psichiatria Malata”; ma è ormai anche pubblica, non è più solo privata e per questo è sulla via della guarigione. Noi- ancor oggi – siamo la voce della “Psichiatria Malata”; il nostro lavoro di ricerca deve tendere ad essere la voce della “Psichiatria”, non più “malata”, ma scienza “sana”, che tende alla cura e alla guarigione della malattia mentale e della sofferenza del malato di mente.
Perché siamo qui, oggi, a Firenze nel Palazzo Pubblico, uno dei simboli dello Stato e della Polis? È una domanda che mi sorge spontanea.
Personalmente lo interpreto come uno degli effetti della legge 180/78. Nata come legge di abolizione del manicomio è diventata nel tempo il filo conduttore della cura della malattia mentale e dei malati di mente (i due termini non sono da me considerati come sinonimi); è la legge attraverso la quale gli psichiatri (del manicomio e non) hanno cercato di dare una voce al malato di mente e quindi una immagine pubblica di sé. Ma non è ancora la voce del malato di mente. È ancora imperfetta, ma espressione di una Psichiatria meno malatą, ma non ancora sana.
In quanto tale, non va abolita, né eternamente deve essere da applicarsi in quanto non ancora applicata, non va riformata, deve essere solo superata senza che questo superamento passi attraverso una sua negazione.
Negare il significato positivo della legge 180/78 sarebbe una disgrazia storica per la psichiatria, gli psichiatri, i pazienti, le loro famiglie, lo stato civile e la comunità sociale. È, infatti, la legge che ha dato voce e parola (pubblica) alla psichiatria, agli psichiatri, ai pazienti e alle loro famiglie. È un momento del cammino verso la Psichiatria “sana”, non ne è il punto di arrivo! dobbiamo averne la consapevolezza.
È stato detto che la legge 180/78 ha reso provinciale l’Italia e la sua psichiatria. Non corrisponde a verità.
Nella comunità scientifica internazionale vi è interesse e curiosità per questa esperienza italiana. È vero: da nessuno è stata ancora copiata, ma solo osservata, studiata; in tutti ha evocato interesse, non sempre è ammirata e condivisa. Paradossalmente, penso, sta qui la sua forza, la sua vitalità che deve essere ancora grandemente sviluppata.
Ne abbiamo fin ad ora visto degli aspetti parziali.
Storicamente dobbiamo svilupparla: la psichiatria è anche storia (anche della scienza e delle sue acquisizioni).
La legge 180/78 ha avuto il significato di rimettere la psichiatria italiana nel suo complesso (e non solo quella parte della psichiatria italiana che ha fatto da supporto teorico al legislatore) all’interno del flusso della storia (della scienza e non solo di questo).
In questo, la nostra legge 180/78 non è una vergogna! dobbiamo tutti – averne la consapevolezza.
La legge 180/78 conteneva elementi utopici (ma non elementi folli in quanto non astorici, ma coerenti con il mondo culturale e politico italiano di allora; esistono ampi esempi di questa affermazione osservando l’attività legislativa del parlamento italiano di allora; se così, l’utopia contiene elementi propositivi e creativi di sviluppo).
La scommessa teorica era quella di poter curare – fin d’ora – la malattia mentale ed il malato di mente (che di fatto in questa ottica sono diventati sinonimi) senza luoghi di ricovero, senza ospedali, riportando nel “territorio” e mantenendo là, quello che per tanto tempo era stato da questo “separato” e “scisso”. Le due entità, malato di mente e malattia mentale, sono stati di fatto – almeno nell’immaginario collettivo – confuse; la malattia mentale nella sua concretezza e realtà umana è di fatto sparita, oscurata dalla sofferenza personale e sociale del malato di mente assimilato tout court al “diverso” nelle varie accezioni comprensive del termine.
È stato questo l’errore, storico, che ha circondato la legge 180/78; questo errore è stato di fatto ampiamente superato!
Ma ha comportato una conseguenza che, credo, nella realtà continua anche se non esplicitamente, ad agire: portando la malattia mentale (ed il malato di mente) al di fuori dei luoghi di ricovero e degli ospedali, questa e la sua scienza (la psichiatria) sono state collocate al di fuori della medicina (e questo non è per il sottoscritto – e non solo per lui -proponibile e pensabile).
È questo che sorprende e lascia, talora, perplessi i nostri colleghi, psichiatri, stranieri. Ed ha lasciato perplessi tanti di noi. È questo che ha colpito, come un macigno, le famiglie dei malati di mente; voi tutti che di fatto siete stati anche vittime, accanto ai vostri malati, di questa legge, di questa profonda – cruenta – trasformazione dell’assistenza psichiatrica.
Con essa siete tornati ad essere attori della cura, non più spettatori passivi della cura operata da altri ed in altri luoghi che non fossero i vostri della vostra esistenza; analogamente agli psichiatri e alla società ne avete sofferto, voi in maniera specifica perché vi è la continuità dei giorni e la messa in gioco dei vostri affetti genitoriali e familiari. Ma un avvertimento
anche a voi e a tutti i colleghi: non si può curare la malattia mentale ed assistere il malato di mente negandoli, rifiutandoli, facendoli sparire, collocarli in un luogo “altro”. La Psichiatria continuerebbe ad essere eternamente “malata”.
Questo imperativo della legge ha costretto tutti gli attori (della rappresentazione) a ricercare nuovi strumenti e metodologie di lavoro, nuovi stili personali, nuove competenze ed attitudini, nuove formazioni.
Non bastavano più i vecchi moduli e modelli della conoscenza in psichiatria e dell’agire terapeutico, e non solo perché ormai obsoleti, vecchi e datati. Quello che era profondamente cambiato era il contesto e lo scenario: molto più ampio e – questo era l’imperativo – doveva essere osservato tutto nella sua globalità, tutto doveva rientrare nello sguardo; dallo sguardo clinico si passava alla clinica dello sguardo.
Ed era cambiata anche l’organizzazione: non è automatico che un cambiamento dell’organizzazione teoricamente funzionale ed adeguato, perché cambino gli individui e i singoli. Nei cambiamenti delle organizzazioni non sempre l’agire dei singoli è funzionale al raggiungimento dell’obbiettivo che il cambiamento organizzativo si propone. A volte i risultati sono paradossali: sembra che tutto cambi, senza che nulla cambi. Ma, un cambiamento è avvenuto.
Di questo dobbiamo avere consapevolezza!
Lo psichiatra deve essere molto attento a questo fenomeno; non ha strumenti di misura obiettivi (positivistici) del cambiamento avvenuto; deve percepirlo senza possibilità di misurarlo. In psichiatria il cambiamento può confondersi con l’adattamento, funzionale al mantenimento dell’organizzazione e alla sua costituzione. Adattamento e cambiamento sono – in terapia psichiatrica – momenti in equilibrio dinamico del percorso di cura/guarigione.
La cura in psichiatria ha almeno tre aspetti costitutivi e caratterizzanti: quello di contenimento, quello di mantenimento, quello di trasformazione; il loro rapporto non è statico e rigido, mai è predeterminato; è costantemente dinamico in un rapporto continuo con le realtà che emergono. La cura in psichiatria richiede una continua attenzione a questi fenomeni; occorre addestrarsi a percepirli a volte oltre il manifesto. Non farlo, ci espone al rischio di creare una attività di cura ed assistenza psichiatrica al di fuori del manicomio con contenuti tipici dell’istituzione manicomiale: quello di controllare e custodire la malattia mentale in attesa di una improbabile trasformazione/riabilitazione tesa al reinserimento nel circuito del sociale e della socialità del malato di mente, ormai reso nuovamente abile.
È stato questo l’errore che la psichiatria positivista del secolo scorso che ha prodotto l’organizzazione manicomiale in termini di assistenza psichiatrica, ha fatto e che in Italia abbiamo sicuramente perpetuato oltre il pensabile.
Penso che il rischio di perpetuare una organizzazione dell’assistenza psichiatrica esista tuttora, anche dopo la legge 180/78. Ed è questo il motivo per cui propongo queste considerazioni allo scopo di riflettere.
Tutti noi dobbiamo averne la consapevolezza!
Ed infine, perché sono qui, oggi, a parlare su invito al Convegno “Psichiatria Malata”, al Palazzo Pubblico di Firenze? La risposta è molto semplice: perché insegno Psichiatria all’Università di Siena e forse, perché no, perché a Siena, ancora esistente, è collocato il più grande Ospedale Psichiatrico attuale della Toscana. Gli altri, grandi, manicomi toscani non esistono più e, se ancora esistono, non sono più incisivi nella storia attuale della Psichiatria, in Toscana.
Vorrei richiamare una piccola annotazione a conferma della mia tesi: oggi è presente l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (il Manicomio Criminale!) di Montelupo Fiorentino nella persona del suo Direttore, chiamato a parlare. Questo fatto assume il significato della presenza storica attuale della vecchia psichiatria, che nei manicomi e nella cura all’interno del manicomio si riconosceva e trovava la sua identità. Mi perdoni il collega di Montelupo Fiorentino. Molto spesso, amo forzare, estremizzare fino ad avvicinarmi al limite dell’esasperazione, senza superarlo.
Chi vi parla non ha però mai avuto rapporti con il manicomio; si è avvicinato, ha convissuto (specialmente a Siena) con esso, ma non vi si è mai immerso. Ha però avuto rapporto – dal 1966 – con la malattia mentale e con il malato mentale nelle Cliniche Universitarie, negli Ambulatori ospedalieri ed extraospedalieri, nelle Accettazioni psichiatriche; e questo in parallelo con gli sviluppi della sua vita all’interno dell’accademia universitaria.
Non sono senese, ho conosciuto Siena nel 1970 quando venni nominato assistente alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Siena. Da quegli anni si è sviluppata a Siena una psichiatria non manicomiale attraverso la creazione prima dell’insegnamento di Psichiatria e successivamente della Scuola di Specializzazione di Psichiatria; parallelamente venne creato il Centro di Igiene Mentale della Provincia, autonomo dal Manicomio; ed ancora in quegli anni, il reparto ospedaliero di Psichiatria all’interno dell’Ospedale S. Maria della Scala, quello che dopo alterne vicende e trasformazioni ospita ora il Servizio di Diagnosi e Cura della USL 30.
Mentre avvenivano questi cambiamenti al di fuori del Manicomio, questo si andava ristrutturando sotto la spinta dell’Igiene Ospedaliero: reparti più funzionali, più salubri, migliori condizioni di vita al suo interno, migliore assistenza: era il frutto della legge Mariotti del 1968. Avvenivano le dimissioni dei dimissibili sulla base della presa di coscienza della non necessità di ulteriore permanenza di quei pazienti all’interno dell’istituzione. Il riconoscimento della Scuola universitaria di Specializzazione in Psichiatria avvenne sulla base di una convenzione fra Università di Siena ed Ospedale Psichiatrico di Siena (S. Nicolò); negli archivi ministeriali la Scuola di Specializzazione di Psichiatria esiste ancora in virtù di quella convenzione, anche se la realtà ormai è ampiamente cambiata, in virtù di leggi ed ordinamenti.
Il “manicomio” attraverso la nomina a docenti di primari, aiuti ed assistenti che là operavano, entrò nella Scuola di Specializzazione e quindi nella formazione della psichiatria senese, parallelamente a quella che afferiva al Centro di Igiene Mentale della Provincia. Furono fatti tentativi di integrare università, ospedale psichiatrico e C.I.M. (e successivamente alla legge 180/78, Servizio Psichiatrico di Salute Mentale) anche nella prassi assistenziale ma fallirono nella realtà organizzativa.
L’Università (la Clinica Psichiatrica che nel frattempo aveva ottenuto per legge dello Stato autonomia dalla Clinica Neurologica) rimase sempre al di fuori del circuito ufficiale della assistenza psichiatrica, fino ad ora: in virtù della recente convenzione fra Università Toscane e Regione Toscana la Psichiatria Universitaria anche a Siena ha avuto il riconoscimento del proprio diritto/dovere ad interagire con l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica.
È in atto un nuovo tentativo di integrazione, mi voglio augurare che non vada incontro ad un nuovo fallimento; questa volta – è la prima volta – sono uno dei protagonisti.
Non credo che avverrà: una cultura psichiatrica extra-istituzionale si è ormai sviluppata; la “crosta” dell’istituzione manicomiale si è ormai infranta.
Ma la Scuola universitaria di Specializzazione in Psichiatria a Siena continua ad esistere in virtù della vecchia convenzione fra Istituto di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università ed Ospedale Psichiatrico S. Niccolò delle Pie Disposizioni! È il paradosso di Siena.
È una delle caratteristiche di Siena: il continuo co-abitare di vecchio e nuovo, talora in un rapporto con tonalità ambigue; il nuovo viene accolto e trasformato all’interno della tradizione, mai viene annullato; riemerge dopo anni, con sorpresa di tutti.
È la magia di Siena, questa città che affascina e seduce, capace di proporre sentimenti forti ed estremi, e che altrettanto fortemente ti contiene (ma non distrugge).
Siena tende a proporsi sempre uguale a se stessa, bella e seduttiva nella magia della storia e nella bellezza delle sue radici e del suo passato più recente; Siena è – quasi – una bella addormentata (di arcadico ed agreste contesto), in cui va percepita – e risvegliata la vita e la vitalità. Per fare questo occorre andare oltre e al di là della monocromia del grigio del suo apparire, cogliendo la policromia dei rossi e dei bianchi delle sue campagne oltre le mura. La pietra serena ed il tufo (terra di Siena) sono i suoi elementi costitutivi!
È un omaggio – che dovevo – a Siena di uno non nato a Siena, ma che come psichiatra a Siena ed in Siena si è formato.
A conclusione, vorrei parlare dei luoghi della psichiatria istituzionale a Siena. Al centro (nel cuore) esiste il S. Maria della Scala (il Vecchio Ospedale) di fronte al Duomo ove trova attuale collocazione il Servizio di Salute Mentale; alla periferia, a cavallo delle mura sud, all’inizio della Cassia Sud, la strada che da Siena attraversando le sue vallate limitrofe, dalla Val d’Arbia alla Val d’Orcia, il territorio dell’Amiata e del Viterbese attraverso l’antica Etruria raggiunge Roma, esiste il S. Niccolò, il Manicomio di Siena. II S. Niccolò (il manicomio) sorge all’inizio di quel percorso da cui Siena ha nel passato tratto le sue origini e la sua nascita: dalla vecchia leggenda che vuole Siena collegata a Roma nella sua nascita (Castrum senium = l’attuale Castelsenio) al dato storico più recente (quello della Repubblica Senese) che vede nella Val d’Arbia e nella Val d’Orcia i luoghi di origine dei rifornimenti delle “granaglie” e quindi la propria “sussistenza”.
Su una collina adiacente (Le Scotte), sorge e si sta sviluppando il nuovo polo sanitario di Siena (il Nuovo Ospedale) dove i programmi di sviluppo collocano la Nuova Psichiatria. Dalla collina delle Scotte si scorge la Città di Siena (quella dentro le mura) ed il suo contado, le sue vallate e colline, quelle raffigurate nella pittura del ‘300 senese (la perla della cultura senese).
Forse allora, Siena potrà vedere il suo centro e la sua periferia e forse allora si svilupperà il Nuovo; con questo intendo riferirmi al nuovo progetto psichiatrico, quello che potrà superare la storia stessa della psichiatria senese.
Siena – la città entro le mura – trova la sua esistenza unicamente perché inserita nel suo contado; ma Siena nelle mura non riconosce facilmente l’esistenza – vitale per lei – di Siena fuori le mura.
Siena guarda il suo contado senza vederlo. Il S. Niccolò è a cavallo delle mura, è in una posizione ambigua, è senese senza essere di Siena.
A parer mio, questa consapevolezza è necessaria per poter andare oltre il manicomio, senza oscurarlo e farlo sparire.
Ho pensato in passato che bastasse mettere sottovetro il manicomio in attesa della sua morte per limitarne le sue potenzialità negative per il cambiamento, quasi a neutralizzarle.
Ho pensato che bastasse non entrare nel manicomio, per esserne immune.
Nella realtà ho pensato che bastasse isolare la follia e non compromettersi per poter essere psichiatri sani e veicoli della Psichiatria Sana. Ho sbagliato, sono stato complice della Psichiatria Malata.
Con la follia (e con i suoi luoghi: il manicomio per antonomasia) occorre compromettersi, confrontarsi, mettersi in gioco; non basta dire che la follia ed i suoi luoghi (arcaici) non esiste/ono (più), che ha/hanno perso la sua/loro potenza (che è/sono stata/i neutralizzata/i e controllata/ i) per essere terapeutici.
È un errore che ho fatto in passato e che nella mia vita, a Siena, ho riconosciuto.
Voglio sperare che il mio essere psichiatra a Siena, sia nel futuro diverso e più creativo. Spero di esserne in grado.
L’Università è entrata oramai fra i luoghi di cura della follia; mi sono assunto, come suo rappresentante istituzionale, il compito di contribuire alla costituzione di una Psichiatria Sana.
Nella consapevolezza dei limiti umani e miei personali, mi accingo a contribuire a questo progetto.
Ho raccontato sulla base dei ricordi e degli affetti. È un racconto quindi soggettivo e non scientifico. In psichiatria – ritengo – la scienza si mostra nel rapporto dialettico fra soggettivo ed oggettivo. Potrei essere stato, quindi, funzionale alla conoscenza/comprensione!