Ragù

Il ragù è uno dei principi della nostra gastronomia, ed, oltre ad avere una storia complessa, è anche collegato ad una leggenda “miracolosa”.

Cominciamo dalla leggenda. Alla fine del Trecento, a Napoli, c’era una Confraternita detta dei Bianchi di Giustizia. Il compito di tale confraternita era quello di fornire assistenza e supporto morale alle persone condannate a morte, e quindi organizzare i funerali, messe di suffragio, e aiutare le famiglie in difficoltà economica. I componenti di tale confraternita, con una tunica bianca con una croce rossa sul petto, percorrevano a piedi la città, gridando “misericordia e pace!”. L’obiettivo di tale marcia consisteva nel far riconciliare le persone, dimenticando torti e rancori, e la loro predicazione aveva convinto molte persone a rappacificarsi con i nemici.

La compagnia, nella sua marcia, giunse nell’odierna via dei Tribunali, presso il “Palazzo dell’Imperatore”, che era stata la dimora di Carlo, imperatore di Costantinopoli e di Maria di Valois figlia di re Carlo d’Angiò. Ma a quell’epoca il palazzo era abitato da un signore nemico di tutti, scortese e crudele, ed evitato da tutti. Il nobile tanto accecato dall’ira, e avvolto nel suo desiderio di vendetta, non accettò l’invito dei Bianchi.

La leggenda dice che anche il figliolo di tre mesi, in braccio alla balia sfilò le manine dalle fasce e incrociandole gridò tre volte: “Misericordia e pace!”, ma questa preghiera cadde nel nulla! Ma un giorno la moglie, per intenerirlo gli preparò un piatto di maccheroni. Per qualche evento miracoloso, il piatto si riempì di una salsa piena di sangue. E solo a questo punto, il signore, commosso dal prodigio, si rappacificò con i suoi nemici e vestì il bianco saio della Compagnia. Sua moglie in seguito all’inaspettata decisione, preparò di nuovo i maccheroni, che anche quella volta, come per magia, divennero rossi. Ma da quella misteriosa pietanza si alzava uno strano e invitante profumo, per cui il signore fu indotto ad assaggiarlo, e lo trovò molto buono e saporito. Decise di chiamarlo Raù, dal nome del figlioletto.

Storicamente, invece, il termine deriva dal francese “ragoût”, che indica un tipo di cottura di carne e verdure, simile allo spezzatino.

Nel ragù ci sono due ingredienti principali: la pasta (soprattutto i maccheroni) e la carne, che hanno avuto “tempi di inserimento” diversi nella ricetta. Vincenzo Corrado ne “Il cuoco galante” (1773), nomina probabilmente per la prima volta in Italia il ragù, intendendo una vivanda simile a uno spezzatino o a un brasato. Sono descritti diversi tipi di ragù, di petto di vitello a quello di animelle, fino al ragù di gamberi o uova. Il piatto in genere prevedeva una prima rosolatura in burro, lardo o olio, poi una cottura in brodo o vino con ortaggi ed erbe aromatiche. Spesso, a fine cottura si aggiungeva succo di limone, o aceto, per aumentare l’acidità del piatto. Il ragù era una preparazione molto versatile e utilizzata per insaporire altre vivande, oppure per formare un ripieno, ma non veniva ancora associato alla pasta.

L’aggiunta della pasta al ragù è avvenuta successivamente, perché sorprendentemente fino alla metà del 500, i maccheroni (il tipo di pasta più utilizzato) venivano serviti come dolci. Cristoforo Messisbugo, cuoco divenuto famoso alla corte degli estensi (e deceduto a Ferrara nel 1548), descrive le tagliatelle preparate con farina, mollica di pane e zucchero, e poi impastate con uova e acqua di rosa. Questa pasta aveva una consistenza morbida, una forma molto spessa ed un sapore dolce, e veniva cotta nel brodo e servita con zucchero e cannella, come piatto a sé stante o come contorno del lesso di cappone! (Bah!)

Nella monumentale opera in sei volumi, “L’Apicio moderno” (1790), di Francesco Leonardi, si ritrovano nuovamente i Maccaroni alla Napolitana in cui appare un condimento simile ad una forma embrionale di ragù alla napoletana: dopo la lessatura (antico termine per indicare la cottura) i maccheroni vengono conditi con parmigiano, pepe e sugo di vitello o manzo (ovvero il sugo ristretto ottenuto dalla stufatura di un grosso pezzo di carne), poi fatti riposare sopra la cenere calda e serviti. Nella seconda edizione del ricettario, Leonardi inserisce una nota importante, ovvero la possibilità di aggiungere il sugo di pomodoro (bisogna ricordarsi che il pomodoro giunse in Europa solo alla fine del XVI secolo).

Carolina d’Asburgo Lorena, moglie di Ferdinando IV di Borbone, introdusse nella cucina dei nobili napoletani la moda dei cuochi francesi, che fecero conoscere a Napoli un piatto a base di carne pregiata, manzo o vitello di prima qualità, ma sempre privo di pomodoro. Ma il prototipo più antico del ragù napoletano viene citato in un ricettario, “La cucina casereccia”, stampato a Napoli da un anonimo autore che si firma con le solo iniziali MF (1828). I maccheroni “lessati” e cosparsi di formaggio grattugiato si condiscono “con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidoro”. In questa ricetta, il ragù è ottenuto con un grosso pezzo di manzo con chiodi di garofano, fatto rosolare con cipolla, prosciutto, lardo ed erbe aromatiche e poi cotto in un brodo che prevedeva l’aggiunta del pomodoro. La ricetta, con minime varianti, sarà ripresa da Ippolito Cavalcanti nella “Cucina teorico pratica” del 1837, il più famoso ricettario napoletano antico.

Dell’uso del pomodoro nel ragù ne parla anche Carlo Dal Bono nella sua opera “Usi e costumi di Napoli”, risalente al 1857, così descrivendo la distribuzione dei maccheroni da parte dei tavernai:

“Talvolta poi dopo il formaggio si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro o del ragù (specie di stufato) copre, quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio”.

Viene citato, poi, nella Bohème di Puccini, dove viene utilizzata la parte liquida per condire la pasta, mentre si mangia a parte la carne.

Successivamente si alterneranno versioni dello stesso piatto con o senza l’aggiunta di pomodoro e solo nel corso del Novecento il pomodoro entra definitivamente nella ricetta. Sempre nel XX secolo, verrà introdotta nella ricetta la carne di maiale.

Ricordatevi che la preparazione del ragù deve coinvolgere l’intero fine settimana: Eduardo dedica al ragù una delle sue più famose commedie, che appunto si intitola: “Sabato, domenica e lunedì”. La cottura deve avvenire a FUOCO LENTO (il sugo con le carni dentro deve “pippiare”), e deve durare molte ore, anche sei (diconsi SEI).

Le carni che dovrebbero essere inserite nel ragù devono essere le seguenti:

1) il muscolo di manzo (gamboncello o colarda),

2) le spuntature di maiale (tracchie o tracchiulelle di maiale),

3) l’involtino di cotenna (cotica di maiale),

4) la polpetta,

5) la braciola, un involtino di carne di manzo ripieno con aglio, prezzemolo, pinoli, uva passa e dadini di formaggio.

Non si può concludere questa pagina del ragù senza citare la poesia di Eduardo:

’O rraù”.

«‘O rraù ca me piace a me

m’ ‘o ffaceva sulo mammà.

A che m’aggio spusato a te,

ne parlammo pè ne parlà.

Io nun songo difficultuso;

ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso

Sì, va buono: comme vuò tu.

Mò ce avéssem’ appiccecà?

Tu che dice? Chest’è rraù?

E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…

M’ ‘a faje dicere ‘na parola?…

Chesta è carne c’ ‘a pummarola»

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