San Giuseppe Moscati: il “nostro” Santo
Nel maggio 1988 l’Ospedale Civile di Avellino, su proposta dei Medici Cattolici, fu intitolato a Giuseppe Moscati, da poco divenuto Santo. Per la beatificazione del dr. Moscati erano state sufficienti nel 1975 due guarigioni ritenute “scientificamente inspiegabili”, avvenute la prima nel 1933 (un paziente affetto da morbo di Addison* [1]) e la seconda nel 1941 (un caso di meningite meningogoccica*[2]). Nel 1978 un fabbro, a nome Giuseppe Montefusco, comincia ad accusare pallore, vertigini, inappetenza: sono i segni della malattia leucemica acuta, che inevitabilmente lo avrebbe portato alla morte. Alla madre del fabbro compare in sogno l’immagine di un medico in camice bianco, al quale tutti portano offerte. Il parroco, con cui si confida, comprende subito e l’accompagna alla chiesa del Gesù Nuovo, ove la donna riconosce immediatamente nel Beato Moscati il volto che le era apparso in sogno. La madre, i parenti e gli amici cominciano a pregare il Beato recandosi continuamente nella chiesa del Gesù Nuovo. Giuseppe Montefusco comincia a star meglio e dopo un mese è guarito perfettamente, tanto da riprendere il suo lavoro di fabbro. Sette anni dopo, il Consiglio Medico della Congregazione per le Causa dei Santi conferma “la modalità della guarigione relativamente rapida, completa e duratura, non spiegabile secondo le conoscenze mediche”. Il 25 ottobre 1987 Papa Giovanni Paolo II proclama la Santità di Giuseppe Moscati.
Per i cristiani cattolici i Santi sono i loro eroi e il loro modello di vita. San Giuseppe Moscati ha vissuto la propria fede in Dio in maniera eroica e così pure la missione di medico, che aveva consapevolmente scelto per professare la sua fede. Lui aveva capito che la fede e la speranza sono per ogni essere umano il respiro della vita: sulla sua importanza per le nostre esistenze si soffermano noti filosofi, da Gabriel Marcel a Ernst Bloch, ma forse non è nemmeno necessario richiamarli. Basterebbe riflettere sulle proprie esperienze. Cosa saremmo senza speranza? Come dice Marcel, il tempo della speranza è “un tempo aperto”, il tempo dei progetti, del futuro; mentre il tempo della disperazione è “un tempo chiuso”, ripiegato su un passato che si può solo rimpiangere. L’essere umano che sperimenti la disperazione è “come una nave bloccata nel ghiaccio”. Non riesce a far nulla, nemmeno ad avere relazioni. “Non privare qualcuno della speranza: può essere tutto quello che ha“, dice lo scrittore Jackson Brown.
Lo sappiamo bene anche noi medici: sappiamo che la speranza sostiene e anima la cura e che il diritto alla verità non deve mai realizzarsi chiudendo le porte a ‘elementi di speranza’, come indica chiaramente l’articolo 33 del Codice di Deontologia Medica (2017). Ogni diagnosi, la più infausta, non deve mai privare il malato del secondo dono di Prometeo agli uomini: l’avere oscurato l’ora della morte. Se possiamo sopportare il peso della nostra mortalità è perché un tratto separa la mors certa dall’hora incerta. Quel tratto, quella distanza è un dono prezioso che non possiamo perdere: lì, sino all’ultimo, la speranza respira.
Ma quando la speranza finisce? E’ lì che soccorre la fede.
Leonardo Bianchi, l’illustre neuropsichiatra, nonché Senatore e Ministro del Regno d’Italia, positivista ateo, in punto di morte cercò con gli occhi il suo collega, Giuseppe Moscati. “Bianchi ha la mano al petto, sta male, volge lo sguardo intorno, come a cercare qualcuno tra la folla che gli sta intorno. Finalmente lo sguardo si posa su Giuseppe, prontamente accorso. Non riesce a parlare, ma lo guarda fisso. Giuseppe comprende immediatamente la gravità della situazione e allo studente accorso con lui comanda: <Vai a chiamare il parroco. Non c’è tempo da perdere. Corri!>. Inginocchiato a fianco del professore, gli presta le prime cure, ma ormai non c’è più nulla da fare. Estrae dal panciotto un piccolo crocefisso e lo dà da baciare al morente, poi, con voce calma, gli parla. L’uomo continua a guardarlo: nei suoi occhi non c’è il terrore della morte. Infine esala l’ultimo respiro… Nessuno parla, ma una cosa è chiara: Bianchi, l’uomo che aveva sempre creduto solo nella scienza, in punto di morte ha voluto vicino Giuseppe”.
Il ruolo della fede nella vita umana Giuseppe Moscati lo aveva capito così bene che, proprio prima di partire per un viaggio che lo avrebbe portato ad Edimburgo, sede del congresso internazionale di fisiologia, e poi a Lourdes, aveva detto a un collega: “Tu credi per dei sentimenti, io credo per un ragionamento”.
Giuseppe Moscati ha intrapreso la professione di Medico sin dall’inizio come una missione, come la sua missione di vita: dare tutto sé stesso per studiare, imparare al meglio l’arte medica e donarla a chiunque ne avesse bisogno, soprattutto ai poveri. È famosa la scritta su un cappello capovolto posto sulla sua scrivania, con il quale lui chiedeva l’onorario: “Chi ha metta, chi non ha prenda”.
Ai congressi internazionali di fisiologia di Vienna e di Edimburgo, ove la sua presenza era sempre richiesta dagli eminenti cattedratici dell’epoca, lui partecipava con grande interesse, ma nei tempi lasciati liberi dai lavori congressuali visitava gli ospedali del posto per apprendere nuove tecniche da importare negli ospedali napoletani.
Morì a 47 anni. Nel corso di una mattina svolta come al solito in corsia tra i letti degli ammalati, fu colto da un’aritmia, ma riprese a lavorare. Alle 14 rientrò a casa, mangiò rapidamente un boccone, e iniziò le visite nel suo studio. Fece appena a tempo a completare la sua prima visita, che il cuore gli si strinse una seconda volta. Congedò i numerosi pazienti in sala d’attesa, dicendo loro di tornare un altro giorno, e andò a morire sulla poltrona della stanza posta a fianco al suo studio. Oggi quella poltrona, insieme ad altre suppellettili della sua casa studio, sono conservate nella chiesa del Gesù Nuovo, esposte al culto dei fedeli. Della sua casa studio, in via Cisterna dell’Olio 10, non resta più nulla se non una lapide posta all’ingresso del palazzo ormai fatiscente, sede di occupazione abusiva. A febbraio di quest’anno è stata eseguita un’ordinanza di sgombero. Giuseppe Moscati non aveva nessun titolo di proprietà su quel palazzo, e nemmeno sull’appartamento che abitava in fitto. Sono certo che se lo avesse avuto, avrebbe ospitato gratuitamente gli abusivi di oggi.
San Giuseppe Moscati non è solo il Santo dei Medici Cattolici. È un modello per tutti gli uomini, in particolare per tutti i Medici.
La nostra Compagnia Teatrale dell’Ospedale Moscati di Avellino (Compagnia Instabile e Traballante del Rione Sanità) intende raccontare la sua storia il 16 novembre prossimo, giorno a Lui consacrato. Speriamo di essere all’altezza del compito che abbiamo assunto.
[1] Il maresciallo degli agenti di custodia Costantino Nazzaro comincia ad avvertire i sintomi del morbo Addison. La prognosi è delle più terribili: non ci sono terapie, la malattia è mortale. I medici non danno alcuna speranza. Insieme alla famiglia si reca nella chiesa del Gesù Nuovo e inizia a pregare Moscati. Vi ritorna ogni quindici giorni. Una notte sogna che Moscati lo opera. Al risveglio è perfettamente guarito.
[2] Raffaele Perrotta è affetto da meningite cerebrospinale meningogoccica. Anche per lui non ci sono cure o terapie. I familiari sono ormai rassegnati, ma incessantemente pregano Moscati. Tra il 7 e l’8 febbraio avviene il miracolo: l’uomo guarisce. In modo improvviso e definitivo la malattia non c’è più.