Sartù di riso

Molti piatti nascono da leggende gloriose e cariche di simboli importanti; qualche piatto è nato anche da una “truffa”!

Il sartù di riso è uno dei piatti più elaborati della cucina napoletana ed è essenzialmente un timballo di riso ripieno di piselli, uova sode, provola o fior di latte, funghi, polpettine di carne e salsicce.

Il termine deriva come molti della tradizione gastronomica dal francese e precisamente dal termine “sor tout”, che significa “copri tutto”, intendendo quindi un “soprabito o mantello”, riferito al pangrattato che, come un mantello, deve ricoprire il timballo di riso, deve “nascondere” il riso.

Il riso arrivò per la prima volta nella città partenopea alla fine del XIV secolo, dalla Spagna, nelle stive delle navi degli Aragonesi. Ma non ebbe molto successo: i nobili di Corte lo definivano “sciacquapanza”, cioè cibo povero, poco gustoso. Veniva utilizzato come medicamento dai medici della Scuola Salernitana, prescrivendolo in caso di malattie intestinali o gastriche (anche in quel periodo c’erano epidemie, vedi colera) in bianco. Così dal Sud fu importato al Nord Italia, dove iniziò ad essere coltivato.


Le origini del sartù, risalgono al 1700, al periodo in cui a Napoli regnava Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, detto il “Re Lazzarone”, che sposò Maria Carolina d’Austria, che non amava la cucina partenopea. Pertanto su “impulso” della regina, si fecero arrivare alla Corte di Napoli i più raffinati cuochi francesi: i Monsù (dal francese “Monsieur“), chiamati a Napoli “Morzù”. Questi cuochi compresero che i napoletani avevano una vera e propria avversione per il riso, e quindi decisero di renderlo più gustoso, aggiungendo pomodoro, piselli, uova sode, fior di latte, polpettine e salsicce. Tutti questi ingredienti furono sistemati all’interno di un timballo di riso ricoperto da un mantello di pangrattato: si trattava di un vero e proprio camuffamento per confondere il sapore del riso! Ecco perché si può affermare che il sartù di riso nasce da un inganno! Ma il piatto fu molto gradito dal re Ferdinando I, dai nobili e dai poveri, e divenne uno dei piatti più amati dai napoletani.

Questa è la ricetta del “sortù” secondo il cuoco e filosofo Vincenzo Corrado: “Cotto il riso con brodo, e poi freddato, si legherà con parmegiano grattugiato, gialli di uova, e qualche chiara, e se ne formerà una pasta, la quale tirata come una grossa sfoglia, entro una casseruola unta di strutto, e polverata di pan grattato; per ripieno di essa vi si metterà un ragù di animelle, condito con tartufi, prugnoli, ed erbe aromatiche; si coprirà con la sudetta pasta di riso, e si farà cuocere al forno. Cotto si servirà caldo il Sortù“. (Il Cuoco Galante, Napoli, 1793).

Il già citato, Ippolito Cavalcanti, nel 1837, descrisse così la ricetta del sartù: “Prendi un rotolo e mezzo di riso, ma che sia di quello forte, lo lesserai nel brodo chiaro, e in mancanza anche nell’acqua, sia pure per economia, perché vale lo stesso. Quando il riso sarà cotto, ma non scotto, ci porrai un terzo, ossia once undici di permeggiano o caciocavallo, e un pane di butiro (purchè non l’avrai cotto nel brodo), ci farai un battuto di dodici ovi, e mescolerai tutto ben bene: indi farai raffreddare questa composizione e poscia prenderai la casseruola proporzionata per formare il sartù, facendoci una inverniciata di strutto con una uguale impellicciata di pan gratto. Poscia ci porrai la mettà del riso già intiepidito e con una mescola leggiermente lo adatterai facendoci un concavo nel mezzo, ove porrai il solito raguncino che più volte ti ho detto per i timpani: al di sopra ci porrai l’altra mettà del riso e con le mani l’accomoderai in modo che vada tutto bene incassato, facendoci al di sopra una ingranita di pan gratto con de’ pezzettini di strutto. Gli darai la cottura come al timpano con la pasta, versandoci uno o due coppini di sugo, cioè a pummarola”.

Oggi ne abbiamo due versioni: una bianca e una rossa. Ma anche gli altri ingredienti interni possono variare a seconda dei gusti.

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