Sindrome da dolore cefalico e nosografia psichiatrica

Marcello Nardini, Immacolata d’Errico

Cattedra di Psichiatria-CLOPD-Università degli Studi di Bari
Rivista di Neuropsichiatria e Scienze Affini. Vol.XLII-N° unico-gennaio/dicembre 1996

Riassunto

Gli AA. propongono alcune considerazioni di ordine teorico, clinico e nosografico di fronte ad una questione che non raccoglie il massimo di consenso, nonostante le determinazioni a cui sono giunti i sistemi diagnostici internazionali: la cefalea muscolo-tensiva rappresenta una sindrome con caratteristiche autonome oppure è unicamente sintomo di altra patologia, soprattutto di ordine psichiatrico? Concludono che esistono al momento tutte le evidenze per poter considerare la cefalea muscolo-tensiva come entità diagnostica e nosografica autonoma al di fuori del campo delle malattie mentali. La patologia psichiatrica che con alta frequenza si associa alla presenza di cefalea, va considerata nella pratica clinica in termini di patologia associata (co-morbidità). Ritengono che tale metodologia diagnostica sia inoltre la più funzionale perché un corretto processo diagnostico e terapeutico possa essere instaurato.

Parole chiave: cefalea, sindrome, sintomo, co-morbidità

Il sintomo “cefalea” (il mal di capo) è estremamente diffuso nella pratica medica e rappresenta una delle motivazioni più frequenti per ricerche diagnostiche e terapeutiche nella medicina di base generalistica e di consultazione psichiatrica e neurologica all’interno dell’ospedale generale. Impegna notevoli risorse con un costo elevato per il servizio di erogazione della salute (Puca F.M. e Scapicchio P.L., 1994). Nel tempo la ricerca ha cercato di portarvi ordine nosografico e diagnostico e si è arrivati ad una classificazione internazionale delle cefalee (IHC ad hoc Comittee) che ha permesso di porre un ordine nosografico funzionale ad un corretto approccio diagnostico e terapeutico.

Per tanto tempo la sindrome cefalalgica è stata ritenuta epifenomeno di una patologia psichiatrica e/o delle emozioni, e nessuna autonomia diagnostica e nosografica era ad essa riconosciuta. Nel corso degli anni ne sono stati individuati specifici quadri sindromici che sono stati separati dalla patologia mentale sulla base di dati clinici, epidemiologici e di fisiopatologia (ad esempio per tutti la cefalea emicranica); la cefalea muscolo-tensiva è stato l’ultimo quadro clinico ad essere isolato dalla patologia delle emozioni e collocato con una specifica autonomia al di fuori della patologia psichiatrica (DSM IV ed ICD 10).

Questo fatto ha comportato una profonda riflessione su alcune questioni che nel tempo sono sempre risultati determinanti. Riteniamo che una riconsiderazione critica di questi aspetti possa essere di utilità per poter avere un approccio metodologicamente corretto di fronte al sintomo “cefalea”. È questo il senso del nostro lavoro, all’interno del quale affronteremo alcune questioni da noi giudicate fondamentali in questo campo.

La questione psicosomatica

Seguendo le linee di sviluppo suggerite dal titolo del nostro lavoro, entriamo appieno nell’area tematica della scienza psicosomatica. Il termine “psicosomatico” ha avuto nel tempo un rilevante successo nelle scienze psichiatriche e psicologiche. Il suo uso ha ormai superato lo “spazio” del mentale (la psichiatria) per approdare a quello del somatico (la medicina), occupandone ampio spazio. È anzi arrivato a definire un’area tematica di ricerca (la medicina psicosomatica) che raccoglie gli interessi di settori medici ampiamente diversificati. Di converso, è stato di fatto messo da parte – e per certi versi del tutto rifiutato – dalla psichiatria clinica.

Storicamente il termine psicosomatico risale a Heinroth (1818) il quale, come seguace della medicina romantica, attribuiva alla psiche l’insorgenza di alcune malattie e le spiegava come conseguenza di cattiveria e malvagità (vedi Muller C., 1980). Lo sviluppo della pratica psicoanalitica ha contribuito alla sua diffusione. Alexander (1951) può essere ritenuto il padre fondatore della psicosomatica moderna; applicando la metodologia psicoanalitica questo Autore ha creduto di poter individuare “situazioni conflittuali psicodinamiche specifiche” alla base dell’insorgenza di alcune malattie somatiche (le malattie psicosomatiche appunto), asma bronchiale, ulcera duodenale, neurodermatite, colite ulcerosa. Il lavoro di Alexander è stato utile, fondamentale e fecondo; è andato oltre la prassi freudiana originaria che (nonostante il superamento teorico della dicotomia cartesiana nell’unità della persona sofferente) tendeva ad interessarsi unicamente dei fenomeni psichici e mentali (le nevrosi), riportando il corpo ed il soma in primo piano nello scenario della clinica (vedi Muller C., 1980).

Nel tempo il termine psicosomatico ha assunto innumerevoli e diversificati significati e significanti senza che si potesse arrivare ad individuare e definire uno statuto epistemologico capace di attribuire alla pratica psicosomatica il ruolo ed il destino di scienza (psicosomatica). Di volta in volta ha assunto gli statuti delle scienze di riferimento, mutuandoli e rendendoli funzionali alla sua ricerca e prassi.

Non è questo certo il luogo per ripercorrerne lo sviluppo storico; nella nostra mente alberga l’immagine della psicosomatica come area operativa funzionale al superamento della dicotomia “mente-corpo”. La psicosomatica – nel nostro pensiero e nelle nostre convinzioni – va interpretata come strategia operativa e di ricerca in grado di leggere oltre la predetta dicotomia ed entro l’unità ed unitarietà dell’organismo umano. Il “cogito” cartesiano aveva rimosso le emozioni e gli affetti dall’essere ed esistere dell’uomo, il tentativo era quello di ri-congiungere e di ri-fondere i due elementi costitutivi dell’uomo, la psiche ed il soma appunto, alla ricerca dell’unità psicosomatica ontologica (figura ed essenza della salute), smarrita nello sviluppo del pensiero illuministico post-cartesiano. Emozioni ed affetti vengono riconosciuti come parte integrante del funzionamento somatico e del comportamento – e viceversa in completa simmetria – in un rapporto sincrono e fusionale, che può essere solo intuito e percepito, mai completamente descritto (Gadamer H.G., 1994).

La psicosomatica e le malattie da questa individuate e descritte non hanno retto al nuovo risorgere della psichiatria descrittiva e nosografica. Le denominazioni delle malattie psicosomatiche scompaiono dai sistemi diagnostici e nosografici più recenti ed accreditati presso la comunità scientifica internazionale: DSM IV dell’A.P.A. ed  ICD-10 della W.H.O., nelle versioni più recenti.

Ad esempio, all’interno dell’ICD-10 le sindromi che in precedenza venivano raccolte all’interno delle sezioni “Malattie Psicosomatiche o Psicosomatosi” perdono una loro precisa collocazione e si disperdono in più sezioni: F45 (sindromi somatoformi); F50 (sindromi e disturbi da alterato comportamento alimentare)’ F52 (disfunzioni sessuali); F54 (fattori psicologici o comportamentali associati con sindromi o malattie classificate altrove). È questa la posizione ufficiale derivata fondamentalmente dai presupposti teorici e dalla metodologia dei sistemi diagnostici attuali. Crediamo che non debba essere ancora considerata come definitiva; le problematiche sollevate dalla ricerca in campo psicosomatico sono ancora attuali e meritano a nostro parere una ulteriore attenzione e ricerca.

La questione nosografica e diagnostica

Negli ultimi anni si è assistito ad una ri-denominazione e ad una ri-definizione delle malattie mentali. In assenza di dati certi sulle cause e sui processi patogenetici sottesi all’emergere della malattia, è nata l’esigenza di individuare una metodologia di rilevamento dei dati clinici (segni) e di riconoscimento (diagnosi) di entità sindromiche (malattie o disturbi) sulla base di criteri oggettivi, misurabili e riconoscibili ed indicativi dell’esistenza della malattia (sintomi). In questa visione e prospettiva metodologica viene affermata la necessità di assumere una posizione ateoretica, empirica ed etiolo-gicamente neutrale, erroneamente interpretata da molti come una rinuncia aprioristica alla comprensione psicopatologica e patofisiologica. Tale posizione risulta funzionale allo sviluppo della prassi psichiatrica sulla base della teorizzazione della medicina delle evidenze condivise dalla comunità scientifica (evidence-based medicine), escludendo l’utilizzo di modelli inferenziali per la comprensione dei fenomeni naturali (vedi per bibliografia Nardini e d’Errico,1996).

A partire da queste premesse, si sono sviluppati Sistemi Diagnostici che hanno influenzato pesantemente la teoria e la prassi

Psichiatrica, tanto da affiancare, e condizionarne forma e contenuti, i trattati di psichiatria clinica e psicopatologia. Intendiamo riferirci al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (A.P.A.) e alla Classificazione Internazionale delle Sindromi e dei Disturbi Psichici e Comportamentali(W.H.O.), ormai giunti rispettivamente alla IV (DSM IV) e alla X edizione (ICD 10). I due sistemi hanno nel corso del loro sviluppo dovuto necessariamente trovare delle convergenze. Le ultime edizioni sono confrontabili (ma non sovrapponibili) ed è in preparazione un sistema informatico automatizzato in grado di porre diagnosi secondo i due sistemi a partire da dati raccolti secondo la stessa intervista strutturata (SCAN/PSE), già disponibile nella versione italiana (Tansella e Nardini,1996).

La diagnosi, all’interno di tali sistemi, ha nuovamente assunto un ruolo centrale; è diagnosi categoriale e vi è una rinuncia alla gerarchia dei sintomi nella costruzione della diagnosi e questo in contrasto con quanto previsto dalla psicopatologia descrittiva e dalla nosografia classica (Schneider K.,1962; Jaspers K.,1964).

Parallelamente si è assistito ad una profonda modificazione del lessico psichiatrico. Sono di fatto scomparsi i termini di nevrosi e psicosi, solo raramente usati per la denominazione di un ampio gruppo di sindromi (vedi Sindromi nevrotiche, legate a stress e somatoformi – sezioni F40-F48-dell’ICD 10) o per la loro utilità descrittiva senza sottintendere alcuna ipotesi per quanto riguarda meccanismi psicodinamici e/o psicopatologici (vedi Sindromi psicotiche acute e transitorie – sezione F23 – dell’ICD 10). I termini psicogeno e psicosomatico non sono più usati nei titoli delle categorie diagnostiche (ICD-10) a causa dei differenti significati che possono avere nei vari linguaggi e nelle varie tradizioni psichiatriche. Il termine malattia non viene più utilizzato perché troppo confusivo; è sostituito dai termini di sindrome e disturbo: indicano unicamente l’esistenza di un gruppo di sintomi e comportamenti clinicamente riconoscibili, associati ad una sofferenza personale e ad una interferenza con il funzionamento dell’individuo.

Le diagnosi categoriali sono omogenee sul piano trasversale, ma disomogenee su quello longitudinale; individuano sindromi omogenee, ma disturbi/malattie disomogenee. Rappresentano di fatto un artefatto sistematico del modello che costruisce la diagnosi in un tempo definito (visione trasversale ed attuale); sono pertanto necessarie alcune integrazioni al momento della loro applicazione nella pratica clinica.

Due sono fondamentalmente le posizioni a tal proposito applicabili:

  1. ritenendo del tutto valide ed esaustive le premesse del modello, la realtà clinica espressa dal disturbo va letta e trattata anche in ottica di comorbidità (trasversale attuale e longitudinale nel tempo della vita); sempre una maggiore importanza stanno assumendo le informazioni derivate dall’analisi delle comorbidità a livello familiare.
  2. ritenendolo non del tutto sufficiente, a questo si affianca quello dimensionale (non prevede entità naturali distinte e separate ma entità definite all’interno di un continuum di disturbo e/o malattia).

I due modelli, quello categoriale e quello dimensionale, non sono alternativi, ma complementari e funzionali alla descrizione e alla comprensione del fenomeno. La categoria fa parte del mondo della tassonomia e descrive il disturbo e la malattia nella condizione di stato, la dimensione del mondo della psicopatologia ed è espressione dei singoli punti e momenti della costruzione del disturbo all’interno delle coordinate spazio-temporali.

Il perché della nosografia diagnostica

Si viene a delineare un sistema diagnostico estremamente complesso ed articolato che ad alcuni appare unicamente come una sterile opera di frammentazione e di dissezione di una realtà complessa, non riconducibile ad un modello semplice.

L’adozione di parametri diagnostici operativi e di criteri esterni di validazione ha sicuramente creato un linguaggio comune tra i ricercatori ed i clinici e dato la possibilità di individuare raggruppamenti omogenei per la ricerca scientifica. Voci critiche si levano sul fatto che tutto questo si possa concretizzare in un miglioramento dell’operare clinico. Non ci pare corretto rigettare a priori questa possibilità, ma occorre andare alla verifica scientifica dell’ipotesi che sta alla base della creazione dei moderni sistemi nosografici: l’organizzazione nosografica è funzionale allo sviluppo delle conoscenze e al miglioramento delle potenzialità di intervento terapeutico e alla loro razionalizzazione. È l’obbiettivo che si pone il modello di intervento sulla salute a partire dalle evidenze scientifiche (evidence-based medicine). All’interno di questa metodologia complessa di lavoro, la nosografia cessa di essere uno sterile esercizio tassonomico, per entrare a pieno titolo nell’ambito della psicopatologia e della psichiatria clinica.

È operativamente possibile ricondurre la complessità ad elementi semplici e non riduttivi?

Nell’agire psichiatrico ci troviamo costantemente di fronte alla necessità di descrivere, comprendere ed organizzare la complessità, riproponendola e proponendocela su piani e su coordinate necessariamente limitate. La complessità come tale può essere solo percepita ed intuita, non può essere descritta e rappresentata; deve essere semplificata o meglio descritta attraverso i suoi elementi semplici. Alcuni ritengono che la situazione attuale sia non meno confusiva che in passato con la differenza che il caso è più nascosto e più codificato, come ha affermato Van Praag nel 1991. Nella nostra visione – al contrario – codificare il caos significa unicamente organizzare fenomenicamente una realtà complessa attraverso l’utilizzo di modelli semplici. Rappresenta questa un’operazione indispensabile ed irrinunciabile perché si possa progredire nella conoscenza oggettiva del reale nella sua globalità e complessità fenomenica e costitutiva.

Il concetto di comorbidità applicato alla clinica delle cefalee

La sindrome da dolore cefalico (la cefalea) è di per sé malattia/disturbo o è sintomo di altra malattia o di una specifica malattia mentale? La psichiatria ha operato uno sforzo continuo per ricondurre il sintomo e la sindrome cefalalgica entro i confini della malattia mentale, quasi a ristabilire un primato del mentale sul somatico. Parallelamente la neurologia e la neurofisiopatologia, e la medicina del somatico in genere, hanno operato per ribaltare questa gerarchia. I risultati sono stati scarsi ed insoddisfacenti ed hanno posto le due linee di ricerca in una posizione di stallo. Un dato ci pare tuttavia incontrovertibile: cefalea e disturbi mentali dell’area nevrotica, legati a stress e somatoformi, ivi compresi quelli dell’area dei disturbi affettivi non psicotici, hanno nessi di congiunzione senza che necessariamente le due entità cliniche si debbano sovrapporre. Puca e coll. (1994),hanno osservato che solo nel 15,2% dei soggetti con cefalea tensiva non era individuabile un fattore psicologico e/o psichiatrico causale e che nel 42.4% più fattori coesistevano. La depressione era presente nel 9.7%, i disturbi d’ansia dell’area fobica nel 19.3%, il disturbo somatoforme nel 5.9%. Nessuna relazione diretta fra cefalea e patologia psichiatrica in termine di connessione etiopatogenetica è stata individuata. I dati di Puca e coll. (coerenti con ampia letteratura) ci dicono unicamente che circa l’85% della popolazione con cefalea tensiva presenta o ha presentato disturbi di tipo psichiatrico. Dati analoghi a quelli di Puca e coll., sono disponibili anche per la cefalea emicranica. I nessi congiuntivi fra cefalea e disturbo psichiatrico sono probabilmente rappresentati dall’utilizzo di canali comuni nelle rispettive costruzioni fenomeniche.

Le evidenze della ricerca e degli incontri di consenso fra esperti sulle quali si basa la costruzione dei sistemi nosografici, hanno attribuito alla cefalea una sua autonomia nosografica al di fuori dei disturbi mentali. Riteniamo che questa rappresenti una posizione estrema derivata in parte da posizioni di forza politica all’interno degli incontri di consenso (Guazzelli e coll., 1994). Allo stato attuale la diagnosi di cefalea tensiva – all’interno dei sistemi diagnostici delle malattie mentali – non può costituire la diagnosi principale di Asse I (DSM IV), può essere registrata in Asse III, quando la condizione dolorosa  – al pari di altre condizioni mediche – interferisce con il disturbo di Asse I e con il funzionamento sociale e personale del paziente. Si potrebbe nel futuro prevedere per la cefalea tensiva una costante registrazione in Asse III (prevedendo una sua specificità all’interno delle “condizioni mediche generali” a cui l’asse diagnostico è riservato) o una co-diagnosi (diagnosi accessoria) in Asse I. Su questo tema la ricerca psichiatrica si dovrebbe muovere in accordo con quanto sta avvenendo all’interno della International Headache Society: studiare la possibilità di aggiungere una quarta cifra (riservata alla condizione psichiatrica presente) al codice di classificazione internazionale delle cefalee (vedi Puca e coll.,1994).

Concludendo riteniamo che cefalea muscolo-tensiva non sia sinonimo di disturbo mentale. Questa posizione ci appare utile per la ricerca clinica e terapeutica futura che dovrà focalizzarsi su quel 15% circa di soggetti con cefalea tensiva in cui non vengono individuati fattori psicologici causali (Puca e coll., 1994). La cefalea tensiva potrebbe essere riportata all’interno dei disturbi mentali ma con una sua precisa definizione. Il tempo in cui il dolore cefalico e la sindrome cefalalgica in genere erano a priori segno/sintomo di nevrosi od espressione fenomenica di un sotteso disturbo dell’umore pare essere definitivamente tramontato. Il sintomo “cefalea” è uno dei sintomi somatici del disturbo ansioso e depressivo, ma quasi mai è ritenuto essere criterio diagnostico principale (DSM-IV).

La ricerca e la prassi psichiatrica sono costrette a ripartire da questa nuova posizione, del tutto derivata dalla medicina; in questo sta forse la base per un nuovo sviluppo della ricerca in campo psicosomatico, del tutto inserita nella epistemologia ed ermeneutica dell’arte medica.

Bibliografia

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